Regia di Dan Gilroy vedi scheda film
“Alimentare la paura vestendo di verità false evidenze”
Vivere e morire a Los Angeles.
In una L.A. (quasi) perennemente notturna, dove gli unici momenti di luce sono quelli filtrati da una finestra dalla tapparella calata a metà di uno spoglio condominio che affaccia su un’altrettanto spoglia strada in discesa,
in una L.A. grigia e straniante, triste e desolata come l’umanità che ospita, indifferente e morente metropoli, quasi anonima e uguale a tante altre quando si perde nel dedalo di vie illuminate dai fari di automobili in corsa e semafori a intermittenza,
in una L.A. del nuovo millennio eppure senza tempo, si muove un individuo che potrebbe essere uno di noi, un giovane uomo piegato dalla crisi economica, solo e ai margini del mondo, di una società, quella odierna, che non lo riconosce, lo rifiuta, gli impedisce di nobilitarsi e rendersi una persona dignitosa attraverso un lavoro, qualunque esso sia, perché lui, il giovane uomo un po’ strambo, impara in fretta, è estremamente versatile, adattabile ad ogni eventualità e pieno di risorse.
E soprattutto molto motivato. La sua condizione di ultimo lo ha forgiato in questo senso.
Offrendogli tra l’altro la non disprezzabile occasione di guadagnare un discreto gruzzolo rubando, per poi rivenderli, materiali in metallo, in particolare in rame, come intere recinzioni buttate giù a colpi di cesoie.
Il suo aspetto è dimesso e provato.
Guance scavate e spalle curve, camiciola e pantaloni incolori, incarna perfettamente la figura dello sfigato, complice una pettinatura non proprio accattivante e un tantino repellente.
Ispira una certa tenerezza, è sicuramente una persona timida e introversa, forse anche un po’ impacciata; modi gentili e lessico colto, ha nello sguardo da cane bastonato una scintilla di ostinazione e perseveranza, lampi di durezza inaspettata ed un’espressione ghignate a dir poco inquietante.
È un disadattato, un misantropo, ma non per questo nato cattivo. È il frutto della realtà cinica e spietata in cui vive.
È un animale in gabbia che non fa che aspettare di fiutare l’occasione ghiotta o la più giusta per lui e buttarcisi dentro a capofitto. E cambiare il suo destino di invisibile perdente.
Un Mark Renton yankee, che una volta provvisto della chiave di volta, sceglie di stare alle regole di quella società che lo considera un reietto.
Sta al gioco e fa il suo gioco. Sporco, scorretto, privo di scrupoli, spietato, bastardo.
S’improvvisa cameraman d’assalto, alla volta di incidenti, rapine, accoltellamenti, furti, omicidi, preferibilmente quelli che interessano individui bianchi e i ricconi della city -che fa più scalpore- da riprendere a caldo, appena avvenuti. Basta restare sintonizzato sulle frequenze della polizia e fiondarsi sul posto imputato a rotta di collo, per assicurarsi l’esclusiva, sbaragliare la navigata concorrenza, filmare il pezzo forte ‘’con tanto sangue’’ e venderlo al miglior offerente delle più audaci emittenti tv.
Vivere sulle tragedie altrui, trasformarsi in sciacalli, in natura quei cani selvatici che seguendo la caccia dei grandi felini aspettano che essi siano sazi della preda di cui si son cibati per divorare ciò che resta della carcassa.
Al bando l’empatia e lo stomaco debole, il motto è sangue freddo, spirito d’iniziativa, incoscienza del pericolo e soprattutto zero etica. L’importante è arrivare per primi, anche prima della polizia stessa. L’unica regola è filmare il filmabile, con un certo gusto per le inquadrature ad effetto, e perfino quello che non può essere filmato, basta alterare (contaminare) un po’ la scena del crimine, et voilà: la magia è compiuta. Prestare aiuto, chiamare i soccorsi, collaborare alle indagini, fornire elementi probatori è fuori discussione, a meno che non se ne possa trarre un ulteriore filmato e quindi un ulteriore sostanzioso profitto.
Il nostro piccolo uomo risorge dalle ceneri di vittima del sistema per divenirne il carnefice, uno dei tanti nuovi adepti degli assurdi folli dettami imposti dalla new economy in materia di (non)rapporti tra datori di lavoro nazi-psicopatici e impiegati-schiavi privati di ogni diritto.
È un mostro di laboratorio, il risultato -l’unico- malato e deformato delle aberrazioni del capitalismo, agonizzante eppure ancora in piedi, tenuto in vita dall’avidità e dalla sete di successo personale unito al terrore (visti i tempi) di finire per strada a mendicare, che esacerba gli animi, crea ferina competizione, inauditi massacri per la sopravvivenza, calpesta e nasconde la verità sotto il tappeto, vìola ogni principio morale. Disumanizza.
É il marcio salito in superficie che puzza come un cadavere in avanzato stato di decomposizione.
Ma è anche un nuovo punto di vista, quello che spesso ed anche a ragione identifichiamo come veritiero, perché offre una prospettiva differente, nuova e brutalmente realistica rispetto a quella messa a punto dai canali mediatici ufficiali, soliti a filtrare e manipolare l’informazione col fine di divulgare all’opinione pubblica una concordata (spesso conciliante) versione della verità.
Un occhio indiscreto, dunque, che scava tra le pieghe di un vissuto che tendiamo a ritenere genuino perché semplicemente parte dal basso; basti pensare alle casuali riprese video amatoriali su avvenimenti passati alla storia, come il filmato ‘Zapruder’ sull’uccisione di JFK a Dallas o quelli che ben riprendono il crollo delle Torri Gemelle, documentando l’accaduto nelle sue varie angolazioni. O quel sostanzioso bagaglio di vita reale più ordinaria di cui l’America è piena, che ha finito per riempire i palinsesti televisivi locali e di mezzo mondo.
Lo sciacallo è un cupo e dolente sguardo sulla nostra contemporaneità piagata, che ha il suo cuore di tenebra in un trasfigurato, indimenticabile Jake Gyllenhaal.
Claustrofobico e disturbante, teso e spasmodico, cattivo amaro e disperato.
Nero come l’ora più nera della notte.
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