Regia di Michelangelo Antonioni vedi scheda film
Ci sono capolavori rifiniti e ci sono bozzetti d’autore. La signora senza camelie appartiene a quest’ultima categoria, perché è come un poema in versi sciolti redatto, con mano disinvolta ed esperta, in una gara per componimenti a soggetto: un’opera estemporanea in cui l’autore preme per esibire le proprie conoscenze e le proprie idee su un argomento che gli è familiare. Antonioni intesse qui un complesso discorso sui retroscena del cinema al femminile, dalle lusinghe del divismo alle delusioni della sfera privata: il materiale a disposizione è ricco, come lo è la varietà di sceneggiature che possono essere proposte ad una giovane attrice, e come lo è lo spettro dei possibili modi di amarla come donna, fuori e dentro il grande schermo. La protagonista, una bellissima ragazza di Milano approdata per caso a Cinecittà, si dibatte tra il sogno del successo facile – che ha, come rovescio, lo sfruttamento commerciale della sua immagine e la riduzione di lei a “donna oggetto”– e la volontà di emancipazione – che, in un contesto maschilista, la condanna alla solitudine. Per trattare l’argomento, Antonioni sceglie il registro della divulgazione popolare, che è saggistica tradotta in forma narrativa, con qualche concessione alla poesia, alla comica e al melodramma. La disomogeneità dello stile ricorda quella di un documentario intervallato da siparietti teatrali, di un realismo tumultuoso che si lascia, di tanto in tanto, ammansire da qualche stereotipo letterario: l’effetto è quello di un tessuto grezzo cosparso di ricami classicheggianti, in cui la verità nuda e cruda ama impennarsi, a tratti, sulla sublime suggestione del romanzo. La vita, quella reale, attraversa di fatto tutti i generi cinematografici, e alterna sogni e disincanti, idealismo e pragmatismo: così procede anche il cammino terreno della divina settima arte, costretta a districarsi tra esigenze produttive ed umori degli attori, tra ambizioni culturali e necessità di fare cassa, tra velleità autoriali e aspettative del pubblico. Nella storia di Clara Manni, la continua incertezza di un ambiente ondeggiante tra serietà e frivolezza, rappresenta la difficoltà di dover ripetutamente scegliere tra la felicità personale a lungo termine e la convenienza immediata, tra l’ideale e il possibile, tra i principi morali e i bisogni materiali. Questo piccolo Effetto notte in chiave rosa è un efficace tentativo di addentrarsi nei risvolti pratici, psicologici e pratici del fare i film, parlando quasi sempre il linguaggio semplice, diretto ed accattivante del cinema di cassetta: lo scopo principale, così sembra, è sfatare il mito che vorrebbe vedere, nei protagonisti del settore, vanesi esponenti del dietro il sorriso niente, ossia persone unicamente dedite al narcisistico sollazzo dell’apparire.
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