Regia di Veiko Õunpuu vedi scheda film
Mati (Rain Tolk) è un intellettuale che sta passando una profonda crisi creativa. È indeciso se farla finita con la vita o impegnarsi per riconquistare l’amore di Jaana (Mirtel Pohla), la bella moglie che non ne può più del suo fare persecutorio e della sua instabilità caratteriale. Maurer (Juhan Ulfsak) e Ulvi (Tiura Tauraite) sono una coppia avvinta dalla monotonia, lui è un architetto preoccupato unicamente del suo posto nel mondo, lei, stanca del freddo egocentrismo del marito, cerca conforto nelle braccia di altri uomini. August (Sulevi Peltola) è un barbiere sulla sessantina, scapolo e solo, indirizza delle equivoche attenzioni nei confronti di una ragazzina (Iris Persson). La madre di questa bambina è Laura (Maarja Jakobson), una donna sfiancata dalla vita appena uscita da un matrimonio violento. Piange a singhiozzi davanti alle telenovele e rifiuta decisamente ogni avances sentimentale. Poi c’è Theo (Taavi Eelmaa), che fa il portiere di notte in un albergo. È sempre solo ed annoiato, va con molte donne, dalle quali riceve solo fugaci piaceri sessuali. Orbitano tutti nello stesso quartiere alla periferia di Tallinn. Ma non si conoscono.
“Ballo d’autunno”di Veiko Ounpuu è un film a più voci incentrato sull’assordante mutismo dei sentimenti, voci flebili e disarmoniche, intonate solo con il senso di dismissione trasmesso dall’ambiente che le avvolge e coinvolge. Sette personaggi con caratteri diversi ma diversamente partecipi della stessa incapacità di saper entrare in sintonia con gli altri. I loro comportamenti sottintendono riflessioni sullo stato delle cose, domande su quale debba essere il modo più idoneo di stare al mondo, sulla reale consistenza dell’amore, sui limiti morali della trasgressione. Sembrano rispondere agli impulsi esterni con istintiva noncuranza, adagiandovisi come per appurare l’effetto che fa. Veiko Ounpuu definisce i caratteri di un’umanità disorientata posta sull’orlo del baratro, alle prese col peso insopprimibile delle proprie debolezze, in balia della corrosione progressiva di ogni valido punto di riferimento. Il mondo è un mare aperto e i personaggi di Ounpuu vi si trovano immersi senza salvagente, con la paura di annegare non appena anche l’unico appiglio su cui possono contare viene meno al suo scopo. Vivono con febbrile attesa questo momento, come un qualcosa che dovrà certamente accadere e che intanto sottrae a tutti ogni sicurezza conosciuta. La regia del regista estone dimostra di non trovare compiacimento nel mostrare il male di vivere, ma solo l’intenzione di volersi connettere con l’acclarata liquidità del mondo contemporaneo mostrando la dissociazione inequivocabile che intercorre tra le migliori intenzioni e la loro esatta negazione. La precarietà è un fatto sistemico che abbrutisce le coscienze, le parole comunicano poco e male, l’incomunicabilità è ormai una regola da cui è difficile potersi sottrarre. Solo attraverso il linguaggio dei corpi è possibile trovare qualche forma concreta di contatto, giungere a qualche intesa emotiva che sappia andare oltre il mero soddisfacimento dei bisogni sessuali. La solitudine è una forza prorompente, e quando non è ricercata da chi tenta di emanciparsi dalla perdurante improduttività di relazioni nocive, rappresenta il segno più tangibile dell’atomizzazione in fieri della popolazione globale. È già l’ambientazione a fare il grosso del lavoro, asettica e lunare, riflette chiara la sensazione di essere il palcoscenico ideale di una straniante rappresentazione delle coeve forme di alienazione. Poi il resto lo fa l’accurata regia di Veiko Ounpuu, con la “finta” coralità di una storia i cui personaggi incrociano i rispettivi cammini solo per qualificare la comune attitudine a non saper dare voce ai loro più intimi sentimenti. L’alienazione può assumere le forme di relazioni umane sfiancate dalla noia, di volti sbiaditi dalla mancanza di calore, di occasionali amplessi sessuali, di fallimenti che non hanno un’origine conosciuta e che non trovano soluzioni rapide. O avere le sembianze simboliche di detriti che popolano le disadorne periferie baltiche, i resti di una civiltà disfatta e senza più coordinate etiche credibili. I pezzi sparpagliati di un mosaico sociale che giace sgretolato tra i casermoni “vintage” ingrigiti dall’intonaco scrostato e le luci al neon dei locali da ballo. Sopra i dedali stradali che fanno incrociare destini contrastanti, o sotto il desolante skyline urbano della periferia di Tallinn. Sintomi di un degrado morale iscritto tra le pieghe di relazioni umane che tirano avanti stancamente. A queste condizioni, non è dato avere o concedere consolazione a buon prezzo.
“Ballo d’autunno” è stato il film d’esordio di Veiko Ounpuu, certamente meno cerebrale e visionario del successivo (e bellissimo) “The Temptation of St.Tony”, ma ugualmente caratterizzato dalla tendenza a legare le crisi esistenziali dei protagonisti con la più ampia crisi di valori riguardante la società. Già vi sono tratteggiati i connotati “apocalittici” di un mondo che cambia vorticosamente i suoi parametri valoriali, le sue premesse genetiche. Si sentono echi di Bela Tarr, nell’immobilismo che limita il linguaggio dei corpi e nel disincanto che permea “culturalmente” la messinscena. Ma rispetto al maestro ungherese, che sembra far dipendere dalla totale perdita di coordinate etiche un destino buio per il futuro dell’umanità (del resto, nell’ultima sequenza de “Il cavallo di Torino”, con una candela che si spegne di botto ha simbolicamente voluto concludere la sua “luminosa” carriera cinematografica), l’autore estone è disposto a concedere ai suoi personaggi delle soluzioni possibili e praticabili : nella ricerca di se stessi e nella conoscenza del mondo mutevole. Ottimo film di un autore di grande spessore stilistico. Da seguire con vivo interesse.
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