Regia di David Lynch vedi scheda film
Istintivamente si sarebbe portati a respingere qualsiasi paragone tra le parti in causa, distanziate non solo da una concezione dell'arte che non potrebbe essere più diversa ma anche dal profilo emotivo e psicologico del pubblico a cui questa è destinata. Parliamo appunto di David Lynch, e dei Duran Duran, artisti che non hanno bisogno di presentazione, coinvolti in un progetto multimediale iniziato con le riprese del concerto della band, tenutosi al Mayan Theatre di Los Angeles nel 2011, e poi proseguito con la realizzazione di un lungometraggio che pur mantenendosi visivamente autonomo rispetto all'evento in questione, nasce comunque sulla suggestioni scaturite da quell'incontro. Il risultato è questo "Duran Duran: Unstaged", ibrido d'autore che assembla materiali eterogenei (documentario, finzione, video arte e spot musicale) destinati a convivere e a comunicare sul piano filmico attraverso il tessuto sensoriale di cui Lynch si serve per tenere insieme le parti del suo film. Nella sua impossibiità di essere normale, dichiarata nella sequenza introduttiva in cui, tra distorsioni visive e asincroni sonori, riusciamo a scorgere a malapena la silhouette del regista, pronto a scomparire dentro la pulsante energia delle sue invenzioni coreografiche, "Unstaged" appare quasi scontato nella sua costruzione cinematografica, con il repertorio - vecchio e nuovo - del gruppo inglese sincronizzato alla progressione di un cineracconto in parte onirico, in parte surreale, che Lynch fa scorrere sotto le immagini del concerto. Un ruscello visivo che fa da commento alle singole canzoni, portando a galla, è proprio il caso di dirlo, un'alternanza di stati d'animo che tutti insieme non sono solo il contraltare immaginifico prodotto dalla partitura melodica delle star inglesi ma anche la testimonianza di una filosofia esistenziale (la pratica della meditazione trascendentale di cui Lynch è uno dei più fervidi sostenitori) che il cinema di Lynch assorbe in pieno nel suo farsi estasi di mondi altri: iconografici e cinefili, come poteva esserlo per esempio la Hollywood ritratta in "Mulholland Drive", oppure interiori, espressione mutevole e diretta di un subconscio in continuo allertamento, e perfettamenti raffigurati da un capolavoro definitivo come "Inland Empire", a cui "Duran Duran: Unstaged", nei suoi continui spostamenti di senso, in parte si ricollega.
Se qualcuno, e sappiamo che sono in molti, si interrogava sul destino di una carriera cinematografica arrivata a un punto di non ritorno, con l'ultimo lungometraggio (datato 2006) che aveva disintegrato qualsiasi regola di continuità e verosimiglianza a favore di un'ispirazione lanciata a briglia sciolta, questa nuovo lavoro ci dice di un artista che non si è stancato di esplorare le possibilità del mezzo ma a cui forse dobbiamo iniziare a rivolgerci con parametri non esclusivamente cinematografici. In "Unstaged" infatti non c'è solo il regista di opere uniche nel loro genere - alcuni passaggi con il campo lungo di una vllla isolata e immersa nell'oscurità della notte, lo stupore colto nel viso di una fanciulla senza nome, le appendici di un fuoco perennemente acceso sembrano infatti rimembranze dei suoi film più famosi - ma anche il compositore musicale, il pittore, l'artista concettuale e altro ancora, assemblato in un origami di rappresentazioni che sfuggono al senso comune, e a cui bisogna avvicinarsi scevri da preconcetti che porterebbero a dubitare sul valore di associazioni come quelle che, sulle note del pezzo da hit parade, ci mostrano in primo piano il modellino di un elicottero che vola verso una meta indefinità o la griglia di un barbecue che sembra scandire il ritmo della canzone attraverso lo stato di cottura degli elementi ivi poggiati. Così, se non fosse per la sua componente più glamour, quella dedicata allo spettacolo di LeBon e compagni, "Duran Duran: Unstaged" potrebbe intitolarsi "Looking for Mr. Lynch" per la maniera con cui il regista lascia trasparire tracce di un sè che sta cercando di organizzarsi e di ripartire. Magari in sordina, cogliendo al volo la possibilità di filmare il proprio tributo nei confronti di un gruppo musicale (e qui sta la sorpresa) da sempre stimato. Una scelta che, a conti fatti, non lascia deluso nessuno: né gli estimatori del regista, abituati alle variazioni di un mood refrattario a qualsiasi tipo di previsione, né i fan dei mitici Duran Duran, pop band degli anni Ottanta rigenerata da un make up che se non aggiunge nulla in termini di glamour, di certo li proietta in una dimensione di mistero e di bellezza che si riflette in senso positivo sullo spessore della loro discografia. Un merito non da poco.
(pubblicato su ondacinema.it)
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