Regia di Ilmar Raag vedi scheda film
Stiamo in Estonia, in una qualsiasi scuola superiore. Joosep (Pärt Uusberg) è un sedicenne timido e taciturno, e basta questo per renderlo l’oggetto del pubblico dileggio di tutta la classe. Un gruppo di bulli capitanati da Anders (Lauri Pedaja) non lo fa stare mai in pace. Il resto della classe assiste inerme, ridendo delle angherie che subisce il povero ragazzo piuttosto che denunciarle. L’unico a prendere le difese di Joosep è Kaspar (Vallo Kirs), e questo gli vale l’ostracismo di tutta la classe. Anche Thea (Paula Solvak), la ragazza, lo allontana, perché in classe vige una regola che tutti devono rispettare : “è una questione d’onore non difendere Joosep”. Le malversazioni che il “branco” pratica sui malcapitati si fanno sempre più violente ed è difficile pensare che la rabbia dei due vessati venga sempre tenuta a freno.
“Klass” di Ilmar Raag è un film che parla di bullismo perché è incentrato sulle violenze che un ragazzo subisce quotidianamente da un gruppo di suoi coetanei. Poi è un film che punta l’attenzione su quelle dinamiche di una classe scolastica dove impera la legge non scritta dell’omertà di branco. Ma “Klass” è soprattutto un film che invita ad uscire fuori dalle quattro mura di una classe, a guardare oltre e dentro la rabbia di questi ragazzi irrisolti. Per capire meglio che questo aspetto della violenza giovanile è il frutto di una questione sociale troppo grande per essere ricondotto al solo gesto violento e alle sole dinamiche di un gruppo di giovani di studenti, è troppo evidente per non investire anche il mondo esterno rispetto alle sue omertose responsabilità. È il motivo per cui questo film mi ha ricordato non poco “Elephant” di Gus Van Sant, e non per il modo fragoroso in cui si fa vedere la degenerazione della violenza, diversissima nello sviluppo narrativo e nelle premesse concettuali di base, ma perché, come nel film tristemente legato ad un fatto reale accaduto, l’autore estone usa l’esplosione della violenza per denunciare l’evidenza di un problema che, se da un lato è troppo grande per non essere visto (proprio da qui nasce la felice intuizione del titolo dato da Gus Van Sant al suo film), dall’altro lato fa emergere un’attitudine umana che sembra ripetersi sempre uguale, quello di indignarsi di un problema solo quando si è costretti a dover piangere dei morti.
Nell’insistere continuato con la violenza di branco contro lo “sfigato” di turno, nel metterla sempre in bella mostra quella violenza, senza arretrare mai con la macchina da presa rispetto alla sua esplicita esposizione, nel voler far sentire chiaramente i corpi che si scontrano, Ilmar Raag ha come voluto insinuare l’incapacità umana di cogliere il rapporto di causa effetto tra ciò che si vede e ciò che rimane nascosto, tra i tanti piccoli fatti e l’esplosione di un grande evento, tra l’avvertire che qualcosa sta accadendo e l’irreparabilità di una cosa che è già accaduta. Nel fare questo, Ilmar Raag unisce due strade registiche tra loro complementari, l’una ci porta dentro le dinamiche del “branco”, facendoci vedere e sentire proprio tutto, l’altra usa i fuori campo come chiave interpretativa di un quadro sociale più ampio. In entrambi i casi emerge l’intenzione di voler dare alle immagini una connotazione rappresentativa che è prima etica e poi estetica.
Nel primo caso, tutto ruota intorno ad una sorta di frase manifesto che i ragazzi si ripetono spesso tra di loro : “è una questione d’onore non difendere Joosep”. È una questione d’onore prendersela con i più deboli e sentirsi forte facendosi scudo della silente complicità di tutti gli altri. È una questione d’onore farsi i fatti propri e non mettersi a contrastare il senso comune dominante. Tanto Joosep non toglie e non aggiunge nulla all’economia delle vite di ognuno, tanto vale ridere delle azioni del branco piuttosto che denunciarle e correre il rischio di esserne vittima. Come succede a Kasper, che affoga nel muro di gomma dell’omertà per essersi messo dalla parte del più debole. È lui a diventare l’elemento detonatore di tutta la vicenda, a sottrarre l’oggetto del pubblico dileggio dalla solidità corporativa di una classe che si voleva indissolubile. Prendere in giro un solo ragazzo fa sentire tutti degli esseri migliori, perché ognuno si convince che il problema risiede unicamente in chi si è deciso debba rappresentarlo. Con due ragazzi si alza la posta in palio e quello che prima veniva vissuto come un gioco abbondantemente tenuto sotto controllo, rischia di trasformarsi in qualcosa di pericoloso che gli si può ritorcere contro con tutti gli interessi.
Nel secondo caso, il non visto ci dice che dietro queste dinamiche “giovanili” ci sono diverse questioni irrisolte. Da un lato (e qui torniamo ad una precisa scelta di regia), il cosa e il come Ilmar Raag ci fa vedere il film ci inducono a credere che è impossibile che i professori, e l’istituzione scuola in generale, non si siano mai accorti di quanta gratuita violenza fosse fatto oggetto un loro allievo. Dall’altro lato, il ruolo sottaciuto delle famiglie induce a riflettere su quanto loro incidono sulla possibilità o impossibilità dei propri figli di reagire opportunamente a un torto che si palesa. Non è un caso che il regista ci faccia conoscere solo quelle di Joosep e Kasper, due famiglie disfunzionali che già possono inculcare nei ragazzi il seme della rabbia.
C’è un dato narrativo su cui insiste spesso Ilmar Raag, che sembra fatto apposta per riunire i due aspetti messi in evidenza, quello della cosiddetta “violenza bianca”, relativa al fatto che i ragazzi stanno attenti a non lasciare segni evidenti sul corpo del malcapitato. Una violenza bruta che nasce con l’intenzione di rimanere invisibile all’occhio umano, che però spiana la strada ad un’altra che potrebbe esplodere con una forza impossibile da nascondere
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta