Regia di Ilmar Raag vedi scheda film
Estremamente violento. Impressionante. Non lascia respiro. Muscolatura contratta per tutta la durata del film. Perturbante e angosciante dal primo all’ultimo fotogramma. La regia di Ilmar Raag è precisa nell’aderire ai corpi dei personaggi, ai loro volti, ai loro dettagli, costringendoli negli ambienti chiusi, piccoli e sconfortevoli della loro scuola e delle loro misere case. La frenesia della macchina a mano, che domina tutta la pellicola, si alterna alle pose scarne e minimaliste, tipiche della cultura nordica quando deve rappresentare la propria funzionalità, il proprio rigore, la propria severità, ma anche la propria solitudine, la disumanizzazione dei grandi spazi e del grande freddo, l’incomunicabilità, l’assenza di tepore.
I soprusi, o meglio sarebbe dire le violenze vere e proprie e le insostenibili umiliazioni perpetrate ai due giovani protagonisti, uno perché da sempre considerato stupido, inadeguato al branco, l’altro invece perché a un certo punto ne prende le difese, sono violenze che sfidano la nostra soglia di tolleranza. Sono violenze bianche come quei calci sul culo che non lasciano lividi. Violenze che passano dall’esercizio del potere alla minaccia collettiva, dall’umiliazione pubblica alla punizione fisica. Il tutto sotto gli occhi complici e condiscendenti dei compagni di classe più marginali e delle ragazze che pur non accettando credono non si possa fare diversamente. Pena, l’esclusione del branco.
Le logiche che regolano le forme di nucleazione nel mondo adolescente passano da sempre e purtroppo da dinamiche di gruppo distorte, leggi di branco che puntano sul leaderismo di pochi e la cieca accettazione di molti, sull’osservazione di regole impositive come sulla condivisione della violenza come segno distintivo del branco. Guardiamo film come End of Watch. Tolleranza Zero (2012) oppure Gran Torino (2008) in cui il gangsterismo chicano o asiatico si basa su strutture interne di intimidazione, fratelli, sorelle e cugini a cui si può sparare se sgarrano, imponendo così un clima di terrore che amalgama il branco e lo rendo forte e pericoloso. Fino a quando arriva Clint Eastwood… Battute a parte, c’è sempre un’agente esterno, lontano anni luce dai codici interni del mondo gangsteristico, che arriva e demolisce le solide fondamenta del gruppo criminale. In Klass è compito del giovane Kaspar estraniarsi dal corpo compatto e violento dei suoi compagni e prendere le difese di Joosep – non a caso la prima scena è ambientata in uno spogliatoio dove, si sa, è molto più facile esibire la propria prepotenza anche attraverso la propria nudità e la propria fisicità. Il risultato sarà comunque sempre lo stesso: il massacro, la morte, la violenza per la violenza.
Klass può ben essere inserito nel triste, ma necessario filone delle stragi scolastiche, anche se come in Elephant (2003) la tragedia arriva solo alla fine e occupa una piccolissima porzione della storia, mentre tutto il resto del film è dedicato alla maturazione del gesto, ai retroscena che lo nutrono. Nel film di Raag il massacro finale giunge improvviso e squarcia di colpo la rete tensiva che s’era impalcata durante tutta la narrazione. Lo sconcerto con cui arriviamo a tale epilogo è l’ultimo dei numerosi pugni allo stomaco che riceviamo come spettatori inermi, impotenti davanti alle angherie compiute ai danni dei poveri protagonisti.
Ed è il colpo che ci fa più male perché avremmo voluto davvero veder morire violentemente quegli aguzzini, e mi scuso per il linguaggio, ma ho sempre provato odio verso i bulli e le loro perversioni. Ci tocca invece, vederli sì massacrati, ma ci tocca assistere anche alla sconfitta sociale ed etica dei due poveri ragazzi che avremmo tanto voluto veder vincere onestamente la loro sfida contro il sistema.
Alle elementari ho picchiato due volte un compagno che si prendeva gioco di un ragazzo indifeso e gli rubava qualche moneta. Alle medie invece partecipavo agli sfottò e agli scherzi verso un compagno autistico. In seguito ne ho preso le difese. Alle superiori sono stato per due anni vittima del bullismo di alcuni compagni che in seguito, per la doppia bocciatura, hanno cambiato scuola dopo il secondo anno. Con il terzo anno vengo accettato dalla classe per quello che sono, ne divento un leader e torno ad essere capobranco negli scherzi e nelle cattiverie verso un compagno con problemi sociali. Non voglio giustificarmi, ma pur nel suo ritardo era una persona sgradevole che ispirava odio, leccava i piedi ai professori e viveva di etichette. Nella mia ribellione giovanile non riuscivo a resistere. Oggi chiedo scusa, e se tornassi indietro non lo rifarei mai più. La mia indole, fin da bambino, è stata quella di soffrire per le ingiustizie. In prima media, era l’88, vedo Taps. Squilli di Rivolta (1981) e sono al fianco dei giovani cadetti nella loro battaglia antimilitarista; pochi giorni dopo vedo Mississippi Burning (1988) e non solo mi innamoro del cinema e di Gene Hackman, ma prendo coscienza delle ingiustizie sociali e inizio le mie battaglie anche con consapevolezza politica.
Oggi, rivedendo Klass, ho rivissuto anche se in piccolissima parte, quello che ho sofferto e ho fatto soffrire decenni fa. Mai un film mi aveva così scosso e fatto ribollirmi dentro la rabbia, il sangue e le frattaglie allo stesso modo. C’è tenerezza in Klass, ma c’è anche la disperazione di una società che non cambia, dove le leggi del branco sono sempre peggiori e sempre più violente. Interessante notare come il regista ci fa conoscere le famiglie dei due poveri protagonisti, mentre quelle dei loro aguzzini non le vediamo mai. Da una parte ci sono genitori assenti e tutt’al più violenti, dall’altra una nonna iperpresente, in entrambi i casi disfunzionali. Ci chiediamo come possano essere le famiglie di quegli odiosi ragazzi che tra pedate, pugni, insulti, atti intimidatori, vandalismo e altro sfogano la loro nullità su chi invece personalità ne ha da vendere.
Il parallelismo con un film tedesco e coevo, L’Onda (2008) ci aiuta a comprendere da dove partono queste radici dell’odio incontrollato e indiscriminato verso tutto ciò che non è simile a noi. I ragazzi del film di Dennis Gansel si chiedono, prima di iniziare la totalitaristica esperienza dell’Onda, a cosa credono i giovani di oggi e fanno il parallelo con le generazioni precedenti che scendevano in piazza a protestare per una causa comune, sedevano a cantare insieme e si amavano liberamente, mentre oggi gli adolescenti della online-generation vogliono solo sballarsi. Lo sballo senza causa, che rimanda a quella gioventù figlia di James Dean senza però la genuinità dello stesso pensiero ribelle, è l’unico collante degli adolescenti di oggi che vivendo la loro individualità come una religione ombelicocentrica, come se fossero vita natural durante in linea su di un profilo virtuale, non conoscono la vita di gruppo e il bello della socializzazione. E nel momento in cui cercano di creare tale gruppo, con ideologie, stili, obiettivi comuni e quant’altro, lo trasformano irrimediabilmente in un branco fascista, intollerante e infine violento.
Il film di Raag, invece, precedente all’onda di Gansel di un anno, mette in azione le teorizzazioni del gruppo fascista ed esplicita la violenza che scaturisce dal vuoto incolmabile della continua ricerca dello sballo. I meschini ragazzi di Raag sostengono ai loro professori, con orrore di noi spettatori, che quei due poveri bersagliati non sono degni di far parte di loro. Sono stupidi, vestono male, sono strani e perciò è giusto darli addosso, offenderli, umiliarli, distruggerli.
La dinamica del branco è semplice: uno o due capibranco, preferibilmente belli e ricchi, un auditorio di senzapalle che accettano come asini le idee altrui e che amano obbedire come soldatini ad una disciplina falangista, triviale e violenta, e infine, ma fondamentale, l’oggetto dei loro soprusi, vittime indifese a cui fare di tutto. L’arma, tra violenza e sfottò, è sempre la più atroce: l’umiliazione. Umiliazione che passa attraverso la spersonalizzazione della vittima e la sua cosificazione, per completarsi ed esaurirsi in quella che può essere vista come l’umiliazione maggiore, quella sessuale, qui virata verso un’onta maggiore, che la dice lunga sullo stato delle cose a inizio nuovo millennio, che è l’accusa di omosessualità.
Le due giovani vittime non sono gay e i loro compagni lo sanno, ma esaurito ogni pretesto per darli addosso ripiegano sull’oltraggio omosessuale. A questo proposito va notato come il terrificante capobranco Anders, interpretato da Lauri Pedaja, che andrebbe inserito tra i migliori cattivi della storia del cinema, dia l’impressione di essere omoeroticamente attratto da Kaspar, il ragazzo che difende Joosep, oppure semplicemente invidioso che il suo diretto nemico abbia una ragazza mentre lui ancora no – cosa che poi sembra avere verso la seconda metà del film, ma non è affatto esplicitata dalla regia quindi non considerabile. Il regista infatti, non indugia sugli sguardi di Anders verso Kaspar, che lo spia in più occasioni e lo interrompe proprio mente sta per baciarsi con la sua ragazza, Thea. E anche uno dei tanti faccia a faccia tra i due ragazzi sembra piuttosto che debba finire con un improvviso bacio, invece l’amore tra maschi viene sostituito dall’odio e dalla violenza scioccante che hanno in corpo.
Sappiamo benissimo come l’omofobia nascondi in realtà una omosessualità non gradita che il represso non accetta e sfoga contro gli altri, ma sappiamo anche che è una facile lettura giustificazionista. Non possiamo comunque non notare queste scelte registiche, questi elementi narrativi, queste svolte tematiche che portano avanti l’azione fino al climax dell’umiliazione totale quando Kaspar viene obbligato, sotto la minaccia di un coltellino, a praticare una fellatio all’amico Joosep sotto lo sguardo divertito e forse anche nascostamente orgasmatico del loro principale aguzzino, Anders.
Ancora una volta la sfera sessuale, e in particolare quella omosessuale, è l’origine di ogni stortura sociale e di ogni violenza, pari alla ferocia che la religione innesca nei suoi fedeli davanti all’infedele. Religione e sessualità sappiamo benissimo essere strettamente connesse tra loro in rapporti di dipendenza ed esclusione che ne fanno appunto i due maggiori moventi di tutti gli odi e tutte le violenze del mondo. Ma mentre la religione è governata da una struttura precisa con mandanti e ideologi, la sessualità è un cane sciolto che non obbedisce a nessuna regola e a nessuna etichetta, anche se nel momento in cui si ribella alla consuetudine viene regolarmente castrata e ricondotta ad un canone condiviso.
Ecco che la sessualità, ferale e istintivo come i primari bisogni dell’uomo, se non educata alla sua libera fruizione e alla sua pluralità può diventare, per contro, la culla di una repressione tale che passando per il vuoto e l’insoddisfazione esistenziale genera odio e violenza. L’odio, dopotutto, è il più naturale degli anticorpi del popolo bue, ignorante e non istruito, piccolo, ma così piccolo da ritenersi qualcuno solo perché indossa un abito di marca, perché guida una macchina di lusso o perché fa parte dell’entourage politico del duce di turno, o ritenersi qualcuno solo attraverso il dominio e la sottomissione, l’umiliazione e l’abuso, invece che gioire di essere uomini veri solo esplicitando se stessi attraverso la propria personalità condivisa attraverso il saggio uso della tolleranza.
Dalla Estonia di Klass, come dalla Germania de L’Onda (2008), ci arriva la cinematograficamente bellissima e perfetta lezione orrorifica di come un branco di adolescenti possa perpetrare, nella propria infinita ignoranza e vacuità, tutte le violenze e le umiliazioni possibili. Allo sbando, figli di genitori assenti o iper-disciplinari, figli di una società in cui contano solo i soldi e non come te li procuri, figli della loro stessa arroganza, figli di quello specchio e di quelle cremine per la pelle, figli degli abiti di marca, delle feste spregiudicate, dello sballo facile a coprire un buco enorme, una voragine incolmabile, figli di una insoddisfazione sessuale pari alle visioni virtuali di video porno, figli dei prodotti di lusso, delle macchine costose e dei locali esclusivi, figli di una televisione che detta le regole della sopravvivenza sociale attraverso modelli distorti di finta umanità, figli di una rabbia giovanile che non ha più la sua diretta, genuina, spontanea, rispettosa e rispettabile manifestazione ribelle.
È brutto dirlo, me ne prendo la responsabilità, ma la provocazione del bellissimo, nichilista e senza speranze* film di Ilmar Raag è che quei ragazzi, quei bulli, possiamo purtroppo odiarli e vogliamo vederli morti.
(*) Una speranza forse c’è, anche se pallida. Sfuma sui titoli di coda. Una scelta, difficile, ma che può essere l’inizio di qualcosa di nuovo e di puro.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta