Regia di Veiko Õunpuu vedi scheda film
Tony (Taavi Eelmaa) è un dirigente d’azienda sulla quarantina. Ha una bella moglie (Tiina Tauraite), una piccola bambina, una bellissima casa e possiede una lussuosa Mercedes con i sedili di pelle bianca. Tony è costretto a ritornare nei luoghi nativi per i funerali del defunto padre. Durante il viaggio di ritorno a Tallinn gli capita di investire un cane. Sopraffatto da un’inusuale senso di colpa, Tony si addentra nel bosco vicino per garantire all’animale una degna sepoltura. Qui scorge un accumulo di mani mozzate e si avvia al più vicino posto di polizia per denunciare la cosa. È l’inizio di un percorso nuovo per la vita di Tony, che inizia una ricognizione esistenziale tutta da decifrare. Perde progressivamente l’agiata tranquillità di sempre, avvedendosi come non mai quanto egoismo e quanta gratuita crudeltà esiste al mondo. Gli capita anche di incontrare una donna di nome Nadezhda (Ravshana Kurkova), un raggio di luce in mezzo al suo inferno terreno.
“The Temptation of St.Tony” del regista estone Veiko Õunpuu è un’incursione in forma allegorica dentro l’eterno conflitto tra il bene e il male, un viaggio cosparso di dilemmi morali attraverso cui si tende di trovare il sacro dentro le umane meschinità contemporanee. Le domande che Tony è indotto a fare sono le solite che si accompagnano alla presenza del genere umano sulla terra, al suo innato tentativo di dare un senso ai misteri del creato attraverso le riflessioni speculative. Cos’è l’uomo rispetto alla morte ? È possibile compiere il bene ? Come sfuggire alla fascinazione del male ? Come dominare le tentazioni del corpo ? Come assecondare le più pure pulsioni spirituali ? Queste domande non sono tanto il frutto del fare meditabondo di Tony, ma insite nelle modalità di un viaggio carico di sottotesti simbolici e incursioni metafisiche, tra la ricerca mistica del proprio posto al mondo e la cosciente evocazione del demonio. Un viaggio dove si possono incontrare angeli con sembianze umane e demoni travestiti da preti, arrivisti malfattori e povere vittime della corruzione dilagante, donne che sanno innalzare lo spirito e cerimonieri malefici che divorano carne umana (tra i quali spicca la maschera archetipa di un mefistofelico Denis Lavant).
Un viaggio verso nessun dove ma dentro una ricerca di sé inteso come entità unica e universale insieme. Non è un caso che ad aprire il film siano i (celeberrimi) versi Danteschi che iniziano il primo canto dell'Inferno della Divina Commedia (“Nel mezzo di cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, che la dritta via era smarrita”), e neanche che le prime immagini che vediamo ci mostrano Tony con in braccio una croce mentre è alla testa della marcia funebre del padre. Perché per l’uomo, la selva oscura dentro cui smarrisce la retta via, è quella che conduce dai luoghi dove sono poste le origini delle sue radici fino al ritorno ad una vita che non sente più in suo totale possesso. A ben riflettere, quella di Tony è nient’altro che una redenzione laica lenta e dolorosa, che passa per il progressivo addolcimento delle sue asperità caratteriali per concludersi con la constatazione empirica che la fascinazione dell’uomo per il male rimane un qualcosa di irredimibile.
Il film è cosparso da una forte carica visionaria e procede per tappe successive (è infatti diviso in capitoli), come se ci fosse un’entità arcana che conduce Tony a seguire un percorso prestabilito, indirizzato dall’ineffabile legge del contrappasso. Se ne ricava una narrazione tutt’altro che lineare, sospesa continuamente tra eccessi allucinatori e calma ieratica, tra un senso di morte che intende prendersi beffa della vita e la vita che vuole rinascere scoprendo l’amore in una moderna e concreta “Beatrice”. Tony sembra incarnare quel tipo di essere umano che non sa riconoscere l’inferno finché ci vive dentro, che non sa dare un giudizio di valore al male finché le piccole e grandi meschinità rappresentano l’unico modo conosciuto con cui sono regolate le relazioni sociali.
Ad un certo punto del film, Tony arriva in una chiesa isolata situata in mezzo ad una vasta campagna. Salito sul campanile, un prete gli fa notare come “bastino solo venti metri per riuscire a guardare le cose da una diversa prospettiva”. “Non ci sono di mezzo gli alberi” ad ostacolare la vista ribatte Tony. “Non è solo una questione di alberi”, conclude gravemente il prete. Non sono tanto gli impedimenti fisici ad evitare che si guardino le cose nel loro verso migliore, non sono tanto gli ostacoli naturali a non far cogliere le cose nel loro senso più profondo. Ma l’abbrutimento delle coscienze, la prevaricazione dei più forti sui deboli, la sete di potere, l’egoismo esasperato, la gratuità della violenza, l’abbandono delle belle speranze. Tony tenta di arrivare ad una consapevolezza di tutto ciò operando una sorta di estraniazione da sé, distaccandosi emotivamente dalla vita di sempre per mettersela ad osservare come farebbe un redendo provetto in cerca di risposte. Il prezzo è perdere tutto, famiglia, lavoro, posizione sociale, tutto ciò che aveva avuto importanza nella sua vita, che adesso gli sembra inconsistente rispetto alla possibilità di camminare lungo il confine tra il bene e il male e riuscire a scorgerne le forme liminari.
Il bianco e nero (dalla bella fotografia di Mart Taniel) è funzionale a tutto questo disegno narrativo per come sa accrescere il senso di latente caducità che serpeggia lungo tutta la storia, le sue fattezze metafisiche, la sua portata volutamente speculativa. Così come la regia di Veiko Õunpuu, che padroneggia con disinvoltura il citazionismo più disparato e la tecnica applicata alla messinscena (camera fissa, camera a spalla, uso sapiente della luce). Si passa da situazioni “tipicamente” kafkiane (come tutta la sequenza in commissariato) ad altre in cui la composizione dell’immagine sembra mutuare la sua architettura cosparsa di simbolismi direttamente dalla pittura fiamminga, dall’esistenzialismo di impronta nitzschiana dei primi decenni del 900 al disincanto greve che cova nel ventre del postmoderno. Su di un piano più strettamente cinematografico, oltre ai “numi tutelari” Luis Bunuel e Pier Paolo Pasolini (di cui vengono riprese alcune musiche religiose presenti in “Il Vangelo secondo Matteo”) esplicitamente ringraziati nei titoli di coda, si sentono echi del Cinema di Bela Tarr (“Le armonie di Werckmeister”) e David Linch (“Eraserhead”).
Insomma, “The Temptation of St.Tony” è un grande film che occorrerebbe trascinare fuori dal limbo in cui è sempre stato. Un film enigmatico, riflessivo, mistico, metafisico. Un’opera che nutre lo sguardo di seducente bellezza.
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