Regia di Max Ophüls vedi scheda film
L'unico film girato in Italia da Max Ophüls è un melodramma fiammeggiante dalle soluzioni narrative ed estetiche ancora fortemente debitrici del patrimonio del cinema muto: recitazione enfatizzata cui contribuisce un cospicuo numero di soggettive, uso espressivo della macchina da presa (che, per esempio, si muove freneticamente al giramento di testa della protagonista o che indugia sulle ombre di oggetti e personaggi), montaggio che fa di ogni tipologia di dissolvenza la propria ragion d'essere.
Al netto di questa "fatica" a discostarsi dal precedente linguaggio del cinema puro, questo film, tratto da un feuilleton di Salvator Gotta e prodotto da Angelo Rizzoli, arriva con svariati anni d'anticipo a criticare il mondo illusorio e fatato dell'industria dello spettacolo, oltreché a tinteggiare, in un'atmosfera onirica-allucinata superbamente costruita in flashback da Ophüls, un ritratto freddo ma impietoso delle convenzioni del rapporto uomo-donna completamente estraneo, per temi e modalità, alla media del cinema italiano dell'epoca.
Tanto è bastato a ritenerlo a lungo il miglior film prodotto in Italia negli anni Trenta. Ma l'eccessivo debito formale verso il cinema muto non può non far propendere l'ago della bilancia a favore di I grandi magazzini di Mario Camerini, davvero una grande opera d'arte.
Questo è solo un ottimo film. I veri capolavori di Ophüls sono ancora di là da venire.
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