Regia di Max Ophüls vedi scheda film
Splendido melo italiano anni '30, atipico perché girato nello stile geniale e brioso di Max Ophüls, è un lungo flashback sulla vita infelice di una donna che non è mai riuscita a sentirsi amata e finisce sfruttata come prodotto commerciale da un'industria dello spettacolo cinica e falsa.
Nel vedere su Raiplay la versione restaurata dell'unico film girato in Italia dal cosmopolita regista tedesco Max Ophüls, mi sono stupito a non leggere il suo nome nei titoli di testa. Il nome di Ophüls è infatti assente dai titoli, dove alla voce “direzione” appare il nome “Tomaso Monicelli”, e anche sulla scheda di IMDb l'autore tedesco risulta come director , ma “uncredited”. Sui motivi per cui non venne accreditato, che immagino possano essere legati al suo essere un ebreo in fuga dall'alleata Germania, se qualche storico del cinema fosse in grado di illuminarmi gliene sarei grato.
Accreditato o meno nei titoli, non c'è tuttavia dubbio che Max Ophüls sua riuscito ad imporre a questo disperato melo l'impronta inconfondibile del suo stile brillante, che lo rende un'opera profondamente aliena rispetto alla cinematografia italiana del periodo fascista, da cui si distacca per modernità e audacia a livello tecnico e visuale.
Il tentativo di suicidio della diva del cinema Gaby Doriot (Isa Miranda) la porta sul lettino di una sala operatoria: il film è un lungo flashback sull'esistenza della donna, indotto dal suo sonno narcotizzato, che visivamente è splendidamente reso dalla maschera chirurgica che lentamente cala sul volto della protagonista; un lettino su cui torneremo nel finale di quest'opera circolare.
A muovere la vicenda umana di Gabriella è principalmente il rapporto con gli uomini a cui aveva spesso fatto girare la testa, senza però trarne alcuna felicità che non fosse illusoria e superficiale. Da ragazzina di provincia aveva fatto invaghire un professore di canto suscitando grave scandalo; poi incontra il rampollo della ricca famiglia Nanni, disposto a battersi per lei, diventando amica e confidente della madre, finché non sarà il padre, un facoltoso industriale, a perdere la testa, con esiti tragici per la legittima consorte. Finita questa storia impossibile, Gabriella si dirige in Francia, dove riesce a sfondare sul grande schermo come Gaby Doriot, ma la fama non le porta quella serenità che non è evidentemente parte del suo destino. Come risuona nelle parole della canzone incisa da Gaby e intitolata proprio La Signora di Tutti, con cui si apre il film sul''immagine di un disco roteante: “Sono nel cuore di tutti / ma tanto infelice perché / io sono l'amore del mondo/ nessuno, nessuno per me / io son la signora di tutti / ma l'anima piange perché / io cerco, esiliata nel mondo, l'amore, l'amore per me”.
Il film si distingue per lo stile di ripresa arioso e brioso tipico di Ophüls, che già avevo apprezzato nei suoi capolavori successivi, girati in Francia e negli Stati Uniti nel dopoguerra. Le scelte di messinscena non sono mai scontate ed ogni sequenza porta i segni di una meticolosa ricerca tecnica, compositiva e drammatica: l'eleganza e il virtuosismo dei carrelli, delle gru e dei movimenti di macchina, il capogiro di Gabriella al ballo reso da un vorticar di cinepresa, le molte dissolvenze incrociate (ad esempio, i volti dei due amanti sovrapposti ai treni che li portano in giro per il mondo), i giochi di ombre e i chiaroscuri da espressionismo tedesco, il risuonare della musica lirica che ossessiona una Gabriella rosa dai sensi di colpa, l'angosciante scena della rovinosa caduta dalle scale dell'invalida signora Nanni, uno dei climax drammatici del film insieme al finale con il secco “stop!” alle rotative che incessantemente stampano le copertine patinate di Gaby Doriot.
E' anche un'opera che porta avanti una critica non scontata allo stesso mondo del cinema e dello star system, rappresentato come fasullo e artificioso, con le fake news degli uffici stampa su una vita serena e radiosa, mai in realtà vissuta dalla tormentata Gaby/Gabriella, pubblicate in una biografia di panzane consolatorie per il grande pubblico, intitolata anche questa La Signora di Tutti. Una donna che è diventata un prodotto commerciale per le masse e la cui individualità è ancora una volta messa da parte e sacrificata da un'industria cinica e insensibile.
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