Regia di James Erskine vedi scheda film
Quando si racconta Pantani, bisogna sempre stare molto attenti a come lo si tratta. Parliamo di un campione del popolo cui il popolo ha voltato le spalle, di uno tra i migliori scalatori della storia del ciclismo trovato morto - secondo autopsia - per overdose da cocaina in un anonimo motel di Cesenatico, del vincitore di Giro d’Italia e Tour de France 1998 e di un atleta la cui carriera fu sporcata da influenti testimonianze a tema doping. Il britannico Erskine, per non saltare in aria sul campo minato di una biografia troppo complessa, sceglie il facile territorio dell’agiografia, inscatolando le ombre a margine ed ettichettandole con la semplicistica targa del complotto. Dagli esordi alla prima vittoria sull’Alpe d’Huez, dal gravissimo incidente sulla Milano-Torino all’eroica riabilitazione, dalle vittorie di Giro e Tour alla squalifica per ematocrito fuori norma, il documentario segue un andamento rigorosamente cronologico tra salite - in cui Pantani era specialista - e cadute, avvalendosi delle potenti immagini di gara ma anche di ricostruzioni posticce con filtri flou che convincono poco. La storia del “Pirata” è depotenziata dalla scarsa volontà di restituirne l’ambiguità, il controcanto, quel doppio volto che ha permesso a un uomo semplice di diventare icona e a un’icona di essere detronizzata senza possibilità di redenzione. Nel raccontare Lance Armstrong in The Armstrong Lie (recuperatelo), Alex Gibney si era sporcato le mani. Quelle di Erskine, invece, si fermano alla superficie patinata delle sue immagini.
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