Regia di Gareth Evans vedi scheda film
Il seguito in tempo reale dell’acclamatissimo primo episodio di “The Raid” definisce più compiutamente l’estetica del regista americano, felicemente fulminato sulla via indonesiana. Si cura di più la storia e si inserisce il concetto “marziale” originario in un percorso narrativo più articolato. A parere dello scrivente, perdendo però per strada un po’ di smalto.
Mi spiego meglio: il primo episodio aveva la grezza genuinità del manifesto programmatico, materia concettuale che non abbisognava di una particolare trama ma solamente di un ambiente dove architettare le evoluzioni degli atletici interpreti. In questa ottica, l’angusto ed oscuro palazzone aveva il giusto appeal per richiamare alla memoria grandi classici action “da camera” del passato, senza sfigurarne al paragone, e di focalizzare maggiormente l’attenzione sulla novità di una “new wave” del filone asiatico, grazie ad un’arte marziale ai più sconosciuta ma capace, con l’essenziale apporto del corpo filmico di Iko Uwais, di una eccellente resa cinematografica armonicamente pari alla ferinità dei colpi e delle leve usate. A mio avviso, poi, la sceneggiatura non era neanche cosi banale, forse solamente soverchiata dalla pirotecnica gestione dinamica dell’azione.
In questo seguito, invece, la storia assume contorni già (ampiamente) noti allo spettatore medio: un misto tra “prison” e “crime” movie con dinamiche che non possono che essere abusate (ci viene risparmiata, per fortuna, la classica “sindrome di Stoccolma dell’infiltrato”). Per questo si perde anche un po’ in coerenza sceneggiativa: come è possibile, infatti, che le miriadi di bodyguards dei vari boss e notabili appartenenti alle varie organizzazioni criminali, pur tenendo conto della loro perizia nelle arti marziali, non usino armi da fuoco ma, al massimo, armi bianche ? La sospensione dell’incredulità, fedele compagna del cinefilo dilettante, può valere per le sequenze all’interno del carcere ed in un altro paio di occasioni ma non giustificare il massacro ininterrotto delle (indifese) figurine di contorno, se non come slabbrata pezza giustificativa per la “presentazione” dei molti antagonisti del nostro eroe.
Ma passiamo ai pregi, anch’essi numerosi: tutte le coreografie dei molti combattimenti sono incredibili, con punte di eccezionalità toccate dallo lotta corale nel fango all’interno del carcere, dal frenetico scontro in auto durante un inseguimento e dalla duplice contesa di Rama contro gli scagnozzi del perfido Bejo nel finale. In questi frangenti Evans da il meglio di se, la resa pratica degli scontri è perfettamente bilanciata e rappresentata da una gestione della mdp assieme dinamica e statica, a comporre quadri dove l’azione è sempre perfettamente fruibile dallo spettatore, senza orpelli aggiuntivi comunque resi inutili dalla perfetta perizia fisica di tutti gli interpreti (la conferma Iko Uwais ma anche il veterano della serie Yayan Ruhian, qui anche coreografo dei combattimenti [che interpretava Mad Dog nel film precedente], il letale Cecep Arif Rahman e gli iconici fratelli “Hammer Girl” & “Baseball Bat Man”, interpretati da Julie Estelle e Very Tri Yulisman). Le qualità recitative del cast permangono invece nella media, senza picchi ne grevi cadute, in uno stile comunque asciutto e privo di scambi di battute esaltanti.
Un lavoro di assestamento, per chi scrive, a tratti esaltante a tratti meno ma che comunque non può lasciare indifferenti circa le sorti di un team di autori che si prepara (giustamente) a consolidarsi nel panorama cinematografico mondiale.
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