Regia di Camillo Mastrocinque vedi scheda film
Un grande film, il cui messaggio passa nonostante (ma, in verità, grazie) la trattazione macchiettistica: se si voleva parlare seriamente, non c'erano possibilità, dato che di spazi per le verità non ce n'erano prima, e non ci sono stati neppure dopo la guerra.
Infatti il merito maggiore, dal punto di vista storico, sta nel mostrare la continuità tra il fascismo e il dopoguerra. Persone umanamente miserabili erano al potere prima, e lo sono state anche dopo. Il fatto che Stoppa interpreti sempre il caporale fa vedere chiaramente questa triste realtà, anche solo nel perpetuarsi dello squallore morale della classe dirigente.
Peraltro, dove è permesso, la pellicola conserva numerosi tratti commuoventi, e quindi seri, come nella presunta storia d'amore nata nel lager.
Il soggetto è proprio di Totò, che qui consegna gran parte della sua visione della vita: la confessione allo psichiatra, che lo tratta inizialmente come deve, cioè come un malato di mente, è inequivocabile. Ed è splendida: vi è una denuncia etica potente, dei guai anche terrificanti creati da persone arroganti, e delle conseguenze indesiderabili patite dagli altri, che in tanti casi hanno scelto di non essere arroganti per non farsi disprezzare e cercare di vivere bene.
Da sottolineare è anche il ritratto della classe dirigente americana postbellica in Italia: volgarissima, ignorante, laida, bisognosa di abbassare il livello culturale ai fini del consenso. A 60 anni di distanza da questo film, quasi tutti gli italiani fanno ancora di tutto per dimenticare questo dato di fatto; certo, per la sopravvivenza economica e l'accettazione sociale conviene, ma conviene davvero?
Totò è straordinario, e non stupisce. Ma anche Paolo Stoppa è fenomenale, proprio per come interpreta i difetti che odiamo negli altri.
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