Regia di Xavier Dolan vedi scheda film
Si può amare ed odiare un film? Sì, si può, ma fino a tal punto? Mommy, il dramma che sta in mezzo fra il gioco e l'autorialità, il manuale di sentimenti e di spontaneità filtrato attraverso la deformata lente di un'estetica strabordante e anche un po' sbrodolante; Mommy, suono gommoso e prepotente, il farfugliamento di un bambino cresciuto ma ancora poco ammaestrato, in grado di vivere in primo piano i sentimenti e le pulsioni, che gli si sbattono in faccia come svelte folate di vento. E non è solo perché è un adolescente, Steve, il figlio di Die, il motivo per cui passa da un'emozione all'altra con una rapidità insolita: la vita di questa persona è un flusso continuo di cose da fare, di gesti da compiere, di insensatezze da imbastire al prezzo della violenza.
Xavier Dolan, che attualmente ha 25 anni, serve un bel pasto da far sbranare sadicamente e con lentezza al suo pubblico curioso e avido di vedere: il binomio di libertà e pazzia è subito pronto in tavola, accompagnato dai più immediati sentimenti di benevolenza che possono sussistere fra un figlio e una madre senza una buona ragione, ma all'insegna della spontaneità. E' questo il progetto del regista canadese, e non può essere altrimenti, raccontare persone che ricercano la libertà, e che hanno da tutte le parti ostacoli contrastanti con i loro desideri. L'estrema classicità di simili premesse, chiare fin dall'inizio (e unica giustificazione di una sceneggiatura molto ma molto lacunosa), non sembra però vogliano creare costruttivo straniamento con immagini invece profondamente ricercate con cui il giovane regista sembra volersi dare un tono: se da un lato Dolan vuole entrare nei suoi personaggi, e farlo con la sfacciataggine di chi manipola le emozioni primarie dello spettatore facendolo rabbrividire ad ogni ralenti e ad ogni sequenza musicata, dall'altro ritorna sempre e costantemente sugli stessi "trucchetti", sulle stesse trovate formali, e se certo si avverte l'entusiasmo, si denota anche un certo qualunquismo dell'immagine che rischia di appiattire tutti i contenuti. Senonché, subito dopo che ha potuto sfoggiare i bei colori di una giornata soleggiata (ma quanto è finto quel Sole nel cielo?), si adagia su un montaggio abbastanza accomodante, in certi punti curatissimo in certi altri tirato via, come improvvisamente funzionale solo e soltanto ai dialoghi e alla storia.
No, l'incoerenza di Dolan non è del tutto perdonabile. Banalità e originalità si tengono a braccetto, impazzano con furore nelle incredibili contraddizioni dell'animo umano, ma poi si richiudono in un gioco tirato per le lunghe, a partire dal formato 1:1 a ribadire la natura claustrofobica di vite invece desiderose di libertà (al ché apriamo l'immagine, quale straordinario potere Dolan concede ai suoi personaggi per poi toglierglielo con disattenzione e poco rispetto). Le creature umane del regista canadese sono delicati ritratti impastati con la retorica e appiccicati con uno sguardo deformato, interessato, consapevole di cosa lo spettatore possa provare in quel dato istante. Dolan guarda alla vita (forse alla vita vera?), e poi vi impone i suoi costrutti, così come può fare un critico di fronte a un'opera d'arte che non ha capito e che ricostruisce lui stesso quasi a voler consolarsi: il piano di questo piccolo genietto è di far quadrare i conti, alla fine. Il quadro di Mommy si chiude, fingendo di interrompersi. La tesi appare lampante e si ripete ridondante. I finali si accumulano, manco fossimo in un thriller d'altri tempi. La durata rischia di superare la sopportazione e va avanti per inerzia. Il campo è libero e Dolan gioca espandendo i suoi tentativi di stupire e di emozionare. Quello che si emoziona di più sembra però proprio lui stesso, che dietro la mdp si gira, si muove, centra lo stretto obbiettivo sui volti dei suoi personaggi (chiedendo interpretazioni difficilmente notevoli, vista la natura dei dialoghi) e si allarga in piccoli poveri sogni, come se il what if...? non l'avesse già fatto qualcun'altro.
E mentre lui ricicla gli altri e se stesso, e noi volenti o nolenti ci facciamo trasportare in certi momenti di immancabile fascino (e di effetto immediato, istintivamente galvanizzante), Mommy resta lì, con le sue dinamicità forzate e i suoi risvolti un po' ovvi, con le sue facce piangenti, le sue metafore elementari e i suoi binomi programmatici. Annientando ma lasciando tutto sulla superficie. Come se allargando quel formato, che facil(ona)mente ci frustra e ci restringe, il film sarebbe potuto essere uguale a tanti altri.
Efficace..evidente..estenuante.
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