Regia di Jennifer Kent vedi scheda film
L’horror che viene dall’Australia ci mette un po’ a palesarsi come tale. Inizialmente preferisce imitare i tanti TV movies a sfondo psicologico, incentrati su uno dei più tipici casi di disagio dei tempi nostri, quello che vede la madre single e lavoratrice alle prese con un bambino affetto da gravi disturbi comportamentali. La storia potrebbe proseguire così, con Amelia, l’inserviente presso una casa di riposo, sempre più sola e stressata, ed il piccolo Samuel, che soffre di allucinazioni e presenta tratti aggressivi, e finisce per dover abbandonare la scuola. Nascono così tante emarginazioni moderne, figlie di una società contrassegnata dal benessere economico e dai progressi della scienza, ma spesso incapace di risolvere i problemi dei singoli, quasi sempre impossibili da ricondurre a categorie note, e così incommensurabili e particolari da non permettere l’applicazione di rimedi preconfezionati. L’idea di base del film è forse proprio questa: esistono fenomeni inspiegabili e irripetibili, che si producono una volta sola, all’interno della sfera individuale, e che non possono essere capiti dall’esterno. Per riuscirci, bisognerebbe poter entrare nella testa del malato mentale. Oppure abitare nella casa infestata da uno spirito malvagio che soltanto lì agisce, e che ha preso di mira i suoi abitanti. Vista da fuori, la stranezza rimane indecifrabile, e non può che suscitare diffidenza, incredulità, o magari vero o proprio terrore. Amelia e Samuel vivono il loro dramma nel più totale isolamento, e quest’ultimo si accentua, mano a mano che gli eventi incalzano, la persecuzione diviene pressante, il mistero si infittisce. L’incomprensibilità è una prigione, che opprime da dentro chi è direttamente colpito dalla sue manifestazioni, trasformando la sua impotenza in disperazione. E lo circonda anche esteriormente, costruendogli intorno una barriera difensiva, all’interno della quale egli ama rifugiarsi, e che assicura agli altri l’auspicata protezione da un soggetto considerato potenzialmente pericoloso. Nel film di Jennifer Kent questa dinamica è descritta in maniera convincente, ed ancor meglio è presentata la relazione osmotica tra la dimensione della follia ed il regno del paranormale: un flusso bidirezionale in cui l’ossessione crea i mostri, e questi, di ritorno, alimentano l’ossessione, secondo un circolo vizioso di cui non si conosce il punto di partenza. Non si sa cosa sia venuto prima, se la presenza del fantasma, che ha indotto la pazzia, oppure la pazzia, che ha dato vita ad un essere inesistente: il babadook, appunto, il cui nome, di origine onomatopeica, unisce una presunta realtà – la sequenza sonora che preannuncia il suo arrivo – con una fantasia totalmente libera e slegata dal mondo, tanto da inventare parole prive di significato. La sceneggiatura fa emergere questo inquietante pensiero con la necessaria gradualità, lungo un crescendo di tensione forse un po’ fiacco, e dall’evoluzione in parte prevedibile, ma comunque ben costruito sotto il profilo narrativo. L’impianto è solido, benché non del tutto originale, mentre l’incisività rimane latitante, a meno di non volerla confondere con la potenza dell’interpretazione dell’attrice principale, che, in alcune scene, raggiunge vertici davvero impressionanti. Per il resto, la debolezza espressiva del complesso risulta parzialmente compensata dalla suggestione – tra il gotico e il noir – proveniente dal registro fiabesco (il libro per bambini) e dalle citazioni cinematografiche (gli spezzoni di classici del genere, tra cui Il fantasma dell’opera). I disegni a matita e la filastrocca che li accompagna ci introducono con sinistra poesia nell’universo degli incubi infantili che, come questo film, è popolato di immortali stereotipi a base di cattiveria senza un perché e di irrazionale paura.
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