Regia di Claudio Casazza, Luca Ferri vedi scheda film
Uno dei morbi che affliggono l’immaginario documentaristico italiano, oggi, è il ritratto arty d’artista. La ricetta, per i molti cake designer del reale, è sempre la medesima: scegliere un personaggio fuori canone, raccontarne la storia non ordinaria, raccogliere interviste per semplificare una filosofia, infornare con stile minimal, ornare a piacimento con animazioni vintage e vizi di forma hipster. Registi che vogliono gareggiare - in artisticità ed eccentricità - con gli oggetti dello sguardo. Apologie della diversità, che dalla tv dei casi umani differiscono solo perché figlie di maggiore ambizione. Habitat [Piavoli], sin dal titolo, mette Franco Piavoli tra parentesi. Come fosse un valore assoluto. Come se all’opera ci fosse (e c’è) un’etica del pudore, un rinnegare lo sfruttamento di questo signore. Che è avanguardista appartato, regista figlio della lirica strutturale dei formalisti russi, creatore di eterotopie naturalistiche, di luoghi sinceramente altri da cui comprendere il mondo. Casazza e Ferri si concentrano sulla contemplazione dell’habitat, costruiscono un dispositivo che non aggredisce, dialogano reverenziali ma risoluti con il maestro, sul cinema. Ritraggono, di riflesso. Le inquadrature rigorose, lente e geometriche, eccedenti di filtri, di specchi, cadono nel vizio arty, ma frequentemente lo liberano, portandolo al parossismo grottesco, alla parodia, a un eccesso che sa di timore cortese verso il regista. Chi sostiene che è un film che imita quelli di Piavoli sostiene il falso.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta