Regia di Giulio Manfredonia vedi scheda film
Accompagnato da didascalie in sovrimpressione e dalla funzione di didascalia vivente di Stefano Accorsi, il film di Manfredonia esegue con la legge 109 un’operazione molto simile a quella fatta dal precedente Si può fare (qui esplicitamente citato) con la legge Basaglia. Seguendo il protagonista, impiegato del nord dipendente da ansiolitici, nell’avventura di una cooperativa “sgarrupata” sul terreno sottratto, per legge, a un boss incarcerato, declina inizialmente in commedia corale il tema dei beni confiscati alle mafie.
Programmaticamente variopinti (per non escludere alcuna diversità, ci sono un immigrato africano, una coppia omosessuale e un paraplegico), i componenti della sgangherata associazione antimafia trasformano la terra incolta in prolifica cornucopia di prodotti biologici, con l’aiuto dell’ex fattore del boss (un Sergio Rubini dialettale e gigione, due spanne sopra il resto del cast), ma affermare la legalità sull’abitudine all’omertà e al dolo si rivela impresa drammatica e (quasi) impossibile. Prodotto didattico dall’intento nobile, La nostra terra si crogiola in una comicità folkloristica spesso ammuffita, mette in bocca al personaggio di Accorsi lunghe parentesi esplicative e imbastisce una sottotrama romantica di scarsissima utilità. Ma ha il pregio di far passare, soprattutto per un pubblico più giovane, concetti non banali sulla radicata ottusità della connivenza, sul modo in cui ragionare “come la mafia” sia tanto deleterio quanto facile, sulle ragioni di un male nazionale.
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