Regia di Mike Leigh vedi scheda film
Lo splendore straordinario delle immagini, la verità della narrazione, e l’ottima interpretazione degli attori, del protagonista Timothy Spall, in primo luogo (Palma d’oro a Cannes) ripagano largamente della inevitabilmente lunga durata del film.
William Turner (1775-1851), il più innovativo fra i pittori inglesi del primo Ottocento, viene raccontato in tutta la sua complessità in questo biopic di Mike Leigh, che ricostruisce con rigore storico l’epoca in cui si sviluppano le vicende della vita dell’artista distribuendo lungo tutto il racconto, e non solo nei paesaggi e negli ambienti, le belle immagini della fotografia di Dick Pope che ha saputo coglierne i colori, le luci e le atmosfere.
L’ultima fatica di Leigh ha avuto una lunga gestazione inevitabilmente, poiché Mr Turner (Timothy Spall) è un uomo complesso, sulle cui contraddizioni e sulla cui “autenticità” si fonda molta parte del film.
Egli era rude e brutale, di aspetto sgraziato e sgradevole; si esprimeva per lo più a grugniti; si comportava come un animale, soprattutto con le donne.
Il regista ci racconta dell’indifferenza astiosa per Sarah Danby (Ruth Sheen), madre delle due figlie mai amate; della brutalità degli assalti “usa e getta” alla fedele domestica e anche della tiepida relazione tardiva con la gentile e generosa vedova Booth (Marion Bayley) con la quale egli avrebbe condiviso, senza troppa continuità, gli ultimi anni della vita.
D’altra parte lo splendore luminoso della sua pittura paesaggistica, la pietosa rappresentazione, sulla tela, dei naufraghi trasportati in catene dal continente africano da negrieri senza scrupoli, l’attenzione commossa alla musica con coloriture sentimentali, l’amore per il padre ci parlano di un uomo diverso, sensibile e intelligente, la cui presenza avvertiamo almeno in due embematiche scene che hanno funzione di cerniera, utile a stabilire la continuità senza soluzione del suo essere duplice, dionisiaco, e, insieme, paradossalmente, apollineo.
La prima ce lo descrive quando, tornato alla casa del padre dopo uno dei suoi molti viaggi continentali in cerca di ispirazione e di conoscenza, comincia a riportare sulla tela le sue impressioni di viaggio. Colpisce che egli lavori impastando le sue terre colorate, le biacche e gli oli con le mani che a poco a poco diventano tavolozza e pennello. Sul palmo di quelle mani egli valuta, infatti, l’intensità dei colori che stenderà sulla tela, così come con le dita di quelle stesse mani egli trasformerà gli effetti uniformi delle campiture più vaste, creando profondità, sfumature, giochi delle ombre e di luci.
Si tratta di un momento del film stupefacente per la sua significanza: l’uomo non teme lo sporco, la terra, la manualità della pittura; sembra, anzi, che se ne compiaccia, quasi che solo entrando nella confidenza più intima e carnale con gli elementi materiali del dipingere gli sia possibile ottenere quei sublimi effetti luminosi che gli permetteranno, nelle ultime opere, di attingere a una particolare forma di spiritualità, dematerializzando e disperdendo nella luce le ultime tracce di rappresentazione “naturalistica”.
La seconda scena – il regista la gira accreditando una leggenda a lungo circolata, ma non documentata – mostra Turner che si fa legare saldamente all’albero di una nave durante una spaventosa tempesta, allo scopo di non farsene travolgere, abbandonandosi, però, alla terribile potenza delle forze naturali, per diventare egli stesso elemento in sintonia con la natura selvaggia e primigenia. La memoria corre a Ulisse, che nello stesso modo si era difeso dal canto malioso e distruttivo delle Sirene, non rinunciando, tuttavia, a conoscerlo: l’arte avrebbe ricomposto in una superiore sintesi, sensazioni ignote e dolorose sofferenze.
Emerge dunque dal film il potente ritratto di un artista rozzo e gentile che aveva saputo infondere nelle proprie opere il fuoco profondo di un animo innamorato dell’arte e della bellezza, talvolta insospettabilmente delicato – la pietà per la prostituta giovanissima, o per la giovane annegata approdata sulla riva del mare -, talvolta fiero nel dignitoso silenzio che quasi sempre oppone all’invidia ipocrita dei più noti pittori del tempo, da Constable a Hydon, così come all’attenzione ammirata, ma supponente, del giovane Ruskin, il futuro grande critico.
Egli, ignorando i complimenti e i consigli interessati, aveva difeso la propria opera preservandone l’integrità complessiva, evitandone la dispersione nelle mani dei mercanti d’arte e disponendone, invece, la donazione allo stato inglese, in modo che, nello spazio pubblico di un museo, tutti i cittadini possano ammirarla e goderla.
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