Regia di Manuela Tempesta vedi scheda film
Quale sia "l'interesse nazionale" di questo prodotto impresentabile [eufemismo] è un mistero. Per carità, ai misteri più o meno buffi siamo abituati; e allora un altro non rappresenta un problema. Solo un piccolo, iniziale sintomo di irritazione.
Irritazione che suscita, dopo nemmeno dieci secondi di voce fuori campo, Sabrina Impacciatore. Alla centoottantesima storpiatura dialettale - che nemmeno quelli del Bagaglino nei più bui giorni d'infausta mancanza d'ispirazione -, all'ennesimo francesismo declinato in un pugliese che non esiste (se non nella mente di autori, interpreti e finanziatori), il livello della sopportazione è stracolmo.
D'altronde, per Pane e burlesque la "cifra stilistica" è proprio quella di riempire la misura - ogni misura - oltre ogni umana concezione, con materiale scadente di riporto, possibilmente dalla discarica virtuale del peggio. Soprattutto del piccolo schermo, terreno contaminato ideale di siffatta roba.
A ben vedere - ma anche a vederci male, malissimo - infatti, ogni elemento - regia, direzione degli attori, musiche(tte), fotografia, copione, contenuti [si considerino virgolettati] - ha i sacri crismi e le dovute doverose credenziali della "bella" fiction nazionalpopolare: l'opera nel suo insieme starebbe grandemente a suo agio in certi palinsesti televisivi. Non occorre dire quali.
A colpire, a morte, è un immaginario cartolinesco cialtronesco ammuffito - di una cinquantina d'anni almeno - fissato su usi e costumi "d'epoca" che quasi fanno tenerezza per come sono fuori dal tempo e buttati lì con incredibile insipienza e sconcertante banalità. E così, via ancora alla fiera/mostra degli atroci luoghi comuni su uomini e donne nell'ottica "tipica" della mentalità meridionale (?!), con l'intero l'armamentario possibile di clichè a corredo (la piazza, i guardoni, quelli che giudicano, i sussurri, le ipocrisie); e, a dominare, un tema come l'emancipazione femminile trattato con pressappochismo e in rassicurante modalità familista nonostante la "scabrosità" (solo apparente) che il "burlesque" del titolo evoca.
Stride, perciò, in un contesto così vecchio, sorpassato, trapassato - il cui sfondo è virato sugli effetti flou della sonnolenta programmazione pomeridiana a base di soap, reality e talk show -, una questione così sentita e presente nella stretta attualità quale è la crisi economica e le sue storture (l'assenza delle istituzioni, il ruolo dei sindacati) e conseguenze (la disoccupazione, i licenziamenti, i fallimenti, gli sfratti). Questione che fa capo qua e là, a casaccio, addirittura in ridicole pretestuose vesti "tragiche".
Tanto poi basta stemperare il tutto nei gioiosi colori pastello della "commedia brillante", in un tripudio (in)festante di stereotipi, "metafore" trite (le strade come simbolo delle scelte della vita), cerchiobottismi, toccate e fughe furbe nell'amata regione televisiva (le protagoniste che, affermate, si ritrovano alla conduzione di un talent sul burlesque), risvolti narrativi superficiali e prevedibilissimi; e sotto l'egida dell'immarcescibile volemose bene, come il ritorno al paesello e ai veri sani valori del finale testimoniano.
Quindi è perfettamente inutile, irrilevante abbozzare un qualsiasi discorso critico sul film: a contare sono solo le scenette, il frasario umoristico da barzelletta (scadente), i balletti stitici delle donzelle, la Chiatti finto-sciatta a cui non si crede nemmeno per un nanosecondo e le sue faccette/smorfiette da fotoromanzo (non che le altre e i comprimari elevino il livello generale, tutt'altro. Ma, poi, Caterina Guzzanti come ci è finita là in mezzo? Mistero. Vero.).
Il siparietto finale, con le nostre impegnate (si fa per dire) a danzar e cantar sulle note de L'amore verrà, chiude il cerchio.
Fate voi.
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