Regia di Claudia Llosa vedi scheda film
Madeinusa (Magaly Soiler) è la figlia di Cayo (Juan Ubaldo Huamàn), il sindaco di Manayaycuna, un piccolo paese situato tra le Ande peruviane. Madeinusa è la principale candidata per interpretare il ruolo di Maria Maddalena durante la processione che darà inizio alla festa del Tempo Santo. Questo ruolo è il più importante per il valore simbolico che ricopre, perché è la Maddalena a coprire gli occhi del Cristo morto che, da quel momento, fino alla Pasqua di resurrezione, non potrà vedere per giudicare le malefatte degli uomini. Durante i giorni del Tempo Santo la popolazione può dare libero sfogo ai suoi pensieri più peccaminosi : chi eccede con l’alcool, chi si scambia il coniuge, chi ne approfitta per rubare qualche animale. Solo il sindaco ha un progetto più ambizioso : cogliere il frutto vergine dalla figlia adorata. Proprio all’inizio dei festeggiamenti solenni, arriva a Manayaycuna Salvador (Carlos J.de la Torre), un geologo che si è trovato per caso da quelle parti dopo essere stato costretto a delle deviazioni di fortuna. Ma al paese i forestieri sono trattati con diffidenza, soprattutto durante i giorni del Tempo Santo. Solo Madeinusa stringe con Salvador un rapporto di solidale complicità, vedendo in lui la possibilità di affrancarsi dal dispotismo paterno e di andarsene a Lima.
“Madeinusa” di Claudia Llosa (nipote del premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa) è un film che parla una lingua antica e sa trasmettere un’indistinta atmosfera sognante, e non perché ci proietta in una storia di tanti anni fa,ma perché le cose che si raccontano arrivano da terre lontane, dove il rapporto con lo spazio e il tempo ancora resiste alle accelerazioni fulminanti indotte dalla nostra contemporaneità. Di Claudia Llosa avevo visto qualche anno fa “Il canto di Paloma”, sempre con Magaly Soiler come attrice protagonista e sempre con il desiderio di riscatto sociale di una donna a fare da linea guida principale alla narrazione. Con “Madeiusa” (suo film d’esordio) mi si conferma come un’autrice particolarmente incline a mettere la donna in stretta relazione col rapporto che ha col suo corpo, sempre mediato da retaggi culturali antichi che di fatto ne limitano la libertà di movimento e il pieno godimento dei piaceri sessuali. Tabù mentali, superstizione, fanatismo religioso, riti magici propiziatori, tutto contribuisce ad imprigionare il corpo di Madeinusa dentro un mondo che esiste e resiste a dispetto del tempo che scorre col suo carico di novità emancipatrici. Il taglio antropologico si palesa in tutta evidenza, nonostante Claudia Llosa giochi di sponda con la fantasia più sfrenata, inventi di sana pianta luoghi e ricorrenze e popoli la storia di situazioni portate fino al limite del surreale. Identicamente al nonno (ma senza raggiungerne i prodigiosi esiti artistici), l’autrice peruviana fa emergere il carattere di un popolo dentro gli eccessi di una festa iconoclasta, un popolo che vive totalmente al di fuori del mondo globalizzato, consapevole della sua posizione di marginalità e rassegnato a trovare riparo nel suo fatalismo intriso di magia. Se frutto di fantasia sono i fatti raccontati, vere rimangono le circostanze etnografiche che le hanno prodotte, perfettamente aderenti ad un sistema di cose dove la vita quotidiana è indirizzata lungo il suo percorso dalla conservazione di usi e costumi ancestrali e dove la fervida religiosità che permea l’esistenza di ognuno si mischia con pratiche e credenze pagane. Si tratta di contadini e allevatori di animali (con echi di Manuel Scorza), di uomini che lavorano per mandare avanti la casa e donne che devono custodirne i segreti. Un popolo che durante il Tempo Santo mette in pratica l’ipocrita paradosso di sentirsi immune da qualsiasi senso di colpa.
Per la felice armonia della storia, interessante è come Claudia Llosa gioca con il senso delle parole "importanti" del film e della chiavi simboliche che gli vengono attribuite se messe in relazione al loro significato letterale. Innanzitutto, la festa del Tempo Santo, che invece di rimandare all’idea di un periodo di massima devozione per un Dio che è morto per espiare i peccati terreni, indica i giorni i cui i fedeli possono abbandonarsi ai loro pensieri più peccaminosi. Essere liberi dalla presenza invasiva di un Dio che tutto vede, significa sentirsi svincolati dal fardello necessario del suo giudizio ammonitore. Poi c’è il nome del paese, Manayaycuna, che significa (in lingua quechua) ”la città in cui nessuno può entrare”. Infatti, Salvador viene trattato come un indesiderato e tenuto a debita distanza dal compimento canonico dei festeggiamenti. È a lui che Claudia Llosa affida il compito di essere testimone di questa temporanea esplosione del vizio, di essere l’occhio terreno ed estraneo che non esprime giudizi e non formula punizioni. Assegnandogli un atteggiamento che oscilla tra la meraviglia e l’incredulità, tra la fascinazione per una realtà rimasta fuori dalla storia e il timore di essere capitato in un luogo senza vie d’uscita. Infine, il nome della protagonista (che pare essere un nome proprio in Perù), scritto tutto attaccato e pronunciato tutto d’un fiato, segno distintivo del fatto che la difesa della propria identità culturale non potrà mai prescindere dal retaggio coloniale che l'ha messa in una posizione di perenne subalternità politica. C’è una sequenza molto emblematica in tal senso ed è quella che ritrae Madeinusa e Salvador teneramente insieme. Ad un certo punto la ragazza nota la targhetta posta dietro la maglietta di Salvador e gli chiede candidamente “come mai hai il mio nome scritto dietro la maglia ?” Il ragazzo gli spiega che quella scritta sta a significare che quell’oggetto è stato prodotto negli Stati Uniti. A questo punto preciso, il significato letterale della parola e il suo senso indotto tendono a coincidere perfettamente, così come il ruolo tanto ambito interpretato da Madeinusa in processione corrisponde al desiderio di una popolazione intera di liberarsi almeno una volta all’anno della sua passiva accettazione del destino. Ecco, Claudia Llosa ci porta dentro una comunità chiusa ed autosufficiente, dove ogni tentativo di emancipazione costa la lotta impari contro un potere tanto invisibile quanto onnipresente. Proprio come quel Dio celeste che solo per poche ore all’anno può vedere come si compie la piena libertà del suo popolo.
Film molto interessante che aderisce con buona resa figurativa a quel “realismo magico” che permea tanta grande letteratura prodotta in Sud America.
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