Regia di Compton Bennett vedi scheda film
Mèlo coinvolgente, giocato molto sul fascino degli interpreti ma anche sul controllo determinante degli sceneggiatori (oscarizzati) in qualità anche di produttori (Sidney Box). Il debuttante Bennett si trovò così in una situazione particolare, dovendo gestire una storia e una produzione di questo tipo dove le dinamiche nel progetto diventarono subito interessanti o pericolose. Pericolose visto che si correva il rischio di fare solo da manodopera ma interessanti data la libertà di concentrarsi più sulla messinscena che su altri problemi della lavorazione. Così la regia si prende subito i suoi spazi, marcando fin dal principio la pellicola con uno stile preciso negli interni e onirico nel girato fuori dai teatri di posa, avvolgendo tutto l'intreccio in un'atmosfera conturbante. La fotografia e le scenografie danno quel tocco in più, rendendo emotiva la rappresentazione, come nella residenza di Nicholas dalle stanze altissime, trasmettendo un respiro gotico fra incomunicabilità e legami sentimentali di sfruttamento ed egoismo. La fragilità accomuna i protagonisti del dramma, l'amore porta a questo così ognuno cerca di fuggire dal mondo, isolandosi in una residenza dorata o dietro al muro della musica, perché la paura d'amare porta anche all'odio per se stessi. Entriamo dunque in pieno nei territori mèlo estremi, senza condannare però nessuno, visto che il problema è nel profondo dell'indole umana e ognuno può raggiungere la redenzione. La sceneggiatura è decisa (forse un po' troppo vista la velocità del lieto fine), ma non è un problema vistoso anche in virtù delle notevoli sequenze dei concerti con le note suonate e il corpo di Francesca che si uniscono sospesi in una dimensione 'panica' e disperata che solo un'artista può comprendere in pieno.
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