Regia di Dan Fogelman vedi scheda film
Al Pacino e il passar del tempo. Quarant’anni fa è successo tutto quello che poteva cambiare la vita di una star. A sua insaputa. La storia è kind of true, praticamente vera, come recita il cartello introduttivo. Un cantante americano scopre solo ora che, nel 1971, quando era ancora agli esordi, John Lennon gli aveva indirizzato una lettera, mai recapitata al destinatario. Una pagina scritta a mano, che conteneva qualche consiglio generale sul rapporto che un artista dovrebbe avere con la musica, e che si concludeva con una domanda: tu che cosa ne pensi, Danny Collins? Sono trascorsi quattro decenni, e il giovane aspirante cantautore di allora è diventato un cantante di successo, un personaggio famoso e ricchissimo che si può permettere qualunque cosa, tranne, forse, un’esistenza felice. Il suo sogno più grande - quello di comporre canzoni - non si è realizzato, sono arrivati tanti soldi, ma tanti sono anche gli errori commessi. Forse le cose sarebbero andate diversamente, se, da ragazzo, avesse provato a rispondere a quell’interrogativo. Se avesse potuto riflettere su se stesso, anziché seguire ciecamente le indicazioni del suo manager, calibrate sulle logiche dello showbiz. Raccontare il ripensamento è un’impresa spiacevole, perché costringe a fare i conti con un’amarezza che tutti noi, prima o poi, incontriamo, ben sapendo che, purtroppo, tornerà ancora. Più la si conosce, più la si teme, più ci si sente sconfitti al suo passaggio. L’unico antidoto è una spregiudicata ironia, che converta la saggezza accumulata nella capacità di scherzare quando proprio non sarebbe il caso. Il film di Dan Fogelman contorce la verve agrodolce del disincanto in un volteggio di mordaci sottigliezze, di battute che ridicolizzano la malinconia, non potendola combattere altrimenti. Al Pacino partecipa al gioco con l’austera magia del suo volto solcato dalle rughe, del suo sguardo eternamene attonito ma ormai spento, del suo portamento incurvato dal peso dell’età. Una sceneggiatura dal sapore speziato lo vuole mentalmente arzillo, ma senza inutili giovanilismi, debole ma impegnato a difendere, con le unghie e con i denti, la sua immagine di uomo magari fallito, però affettuosamente attaccato alla parte più solida della realtà. Sapersi fermare, senza fare follie. Rimediare alle colpe, senza umiliarsi. Si può, all’improvviso, e per un futile motivo, decidere di cambiare strada, pur rimanendo fedeli al proprio amore per la concretezza, accorgendosi che questa non ammette solo aspetti materiali, ma anche la morbida consistenza della sostanza umana. Il discorso può ripartire, e procedere spedito, proprio dalla sua imperfezione, dalle questioni lasciate a metà, dalle paure, dai traguardi irraggiungibili, dai limiti che non si credeva di dover fronteggiare. Dal cassetto, a volte, esce una povertà di fondo, che si pensava di poter accantonare. È la miseria di non sapersi vestire di normalità, di continuare a volere di più, di accumulare per poi subito mollare. Danny, d’un tratto, è costretto a voltarsi indietro, trovando ciò che è rimasto incompiuto, o rischia di rimanere tale. Scopre che, alla base dell’esistenza, ci sono la fine, la discontinuità, il rifiuto, l’incomprensione, tutti gli ostacoli che determinano naturalmente il percorso dell’individuo, inducendolo ad insistere, a desistere, a mutare strategia, ad aprirsi verso gli altri o chiudersi in se stesso. L’andamento del dare e ricevere (amore, sostegno, fiducia) segue un meccanismo complesso, che si può eludere trasferendosi in paradisi artificiali, ma che, ad un certo punto, fa scattare il rimpianto per quel meraviglioso inferno che è la quotidiana battaglia della gente comune: di Tom, il figlio che non ha mai visto, di Hope, la sua nipotina con problemi comportamentali, di Samantha, la nuora estranea che gli spalanca il cuore. Questo film potrebbe suonare come l’ennesimo, scontato inno alla famiglia, se solo fosse una storia facile e rassicurante e non camminasse con passo barcollante, ubriaco di originale intelligenza, intrecciando arabeschi di articolata fatuità, quel tanto che basta a dribblare la serietà indotta dalle considerazioni morali. La fantasia corre sul filo di un non è mai troppo tardi intonato con una rauca voce di repertorio, che un po’ stona, un po’ è tentata di rimanere uguale a se stessa, ma che, globalmente, riesce a svolazzare con l’arguzia farfallona di chi si diverte a giocare a rimpiattino con il rimorso. Lo spettacolo, per Danny, prosegue dietro le quinte, dove si fa più libero ed autentico, ed anche più carico di immaginazione. Al Pacino funge da spalla al mostruoso lato in ombra della grandezza, trasformandolo nel più classico dei pagliacci tristi, quello che diventa comico quando piange, quando sa di aver fatto il suo tempo. E lo fa con l’eleganza della controfigura di razza, che passa e va, che si fa apprezzare per la sua fugacità, che dà il meglio di sé nell’atto – che qui è idealmente ripetuto all’infinito – di congedarsi ed uscire di scena.
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