Regia di Theo Angelopoulos, Vicente Aranda, John Boorman, Youssef Chahine, Alain Corneau, Costa-Gavras, Raymond Depardon, Francis Girod, Peter Greenaway, Lasse Hallström , Hugh Hudson, Gaston Kaboré, Abbas Kiarostami, Cédric Klapisch, Andrej Konchalovskij, Spike vedi scheda film
In un giorno del 1995 un treno arriva alla stazione di La Ciotat, una località turistica nel Sud della Francia. E la cinepresa dei fratelli Lumière è di nuovo lì a filmarlo. Questa volta, dietro l’obiettivo, c’è Patrice Leconte. Per festeggiare il suo primo secolo di vita, il cinématographe – una scatola di legno di noci delle dimensioni di un dizionario, dotata di una lente e di una manovella – ha fatto il giro del mondo. È stato a Barcellona, a Berlino, a Stoccolma, ma a anche a New York, a Hiroshima, a Johannesburg, a Ouagadougou. Ed è passato per le mani di quarantuno registi di diverse nazionalità, ciascuno dei quali l’ha potuto usare per meno di tre minuti: il tempo necessario a girare un cortometraggio di 52 secondi con un massimo di tre riprese. Le regole del gioco prevedevano anche l’obbligo di realizzare un solo piano sequenza, ma non tutti vi si sono attenuti. Tra coloro che, nonostante la brevissima durata del film, non hanno saputo rinunciare al montaggio, figura (inutile dirlo) David Lynch. Ma queste eccezioni, in fondo, fanno parte dello spirito dell’iniziativa, che voleva onorare la settima arte mettendo uno strumento antico a disposizione di tanti diversi stili e talenti moderni: la tecnica rudimentale doveva conciliarsi con le esigenze di un’arte che, in cento anni, si è diffusa, evoluta e differenziata, diventando, per innumerevoli autori, un duttile mezzo di espressione personale. La sfida, affrontata dai quarantuno partecipanti al progetto Lumière et Compagnie, consisteva proprio nello sforzo di ricondurre il proprio rapporto col cinema alle condizioni delle origini, quando a scatenare la creatività e suscitare meraviglia era la semplice possibilità di catturare alcune immagini in movimento e riprodurle su uno schermo. I quarantuno registi di oggi hanno cercato di rivivere l’essenza di quell’emozione, caricandola di significati diversi: quelli che, col tempo, hanno arricchito il cinema di interazioni col mondo, con le correnti del pensiero umano, con gli eventi storici, con l’evoluzione dei costumi, con lo sviluppo della scienza e della tecnologia. La varietà dei prodotti emersi da questo esperimento, unico nel suo genere, dimostra quanto, nel corso del tempo, si siano moltiplicati i modi di guardare alla vita; e come siano diventati straordinariamente numerosi i motivi che trasformano il singolo attimo - condensato in un frammento di visione – nell’istantanea di una verità che ne supera abbondantemente i ristrettissimi confini. La singola scena può contenere la denuncia di una situazione politica: le forti limitazioni alla libertà di espressione in Algeria (Merzak Allouache) e, in generale, nei regimi improntati al fondamentalismo religioso (Youssef Chahine), oppure il mancato diritto all’obiezione di coscienza in Spagna (Fernando Trueba), oppure, ancora, la violenza del mondo contemporaneo (Michael Haneke). Oppure può essere una testimonianza gioiosa o dolorosa, individuale o collettiva, da consegnare alla memoria: un ricordo di guerra, che può rievocare una distruzione (Yoshishige Yoshida) o una vittoria (Vicente Aranda), oppure un’emozione personale rivolta alla speranza (il bebé ritratto da Spike Lee, o la donna che allatta di Bigas Luna) o alla disperazione (l’Ulisse di Theo Angelopoulos, o la donna che fruga nell’immondizia di Jerry Schatzberg). In questa rassegna compaiono l’amore (nel bacio di Claude Lelouch, nella coppia Down di Jaco Van Dormael e negli sposi in elicottero di Lucian Pintilie) e la morte (nel duello di Gabriel Axel, nel funereo paesaggio ripreso da Andrej Konchalovskij e nella criptica sequenza di David Lynch). Altre volte, invece, sul desiderio di immortalare il sentimento, prevale il desiderio di documentare la vita e l’umanità nel suo complesso, quando emette un brusio indistinto, che non permette di riconoscere le cadenze, allegre o tristi, delle singole voci (vedi le scene corali parigine di James Ivory e Nadine Trintignant). Naturalmente, non potevano mancare le riflessioni rivolte al soggetto principale del discorso, al fare film, ossia al passato artistico dei singoli autori (di Wim Wenders, che rievoca Il cielo sopra Berlino) oppure a quello del cinema in generale, con i suoi antichi cimeli (vedi la ballerina indiana di Alain Corneau, in una pellicola dipinta a mano) e le sue glorie tramontate (vedi il nostalgico tributo a Fellini di Francis Girod e l’omaggio di Helma Sanders-Brahms a Louis Cochet, tecnico delle luci dal 1931).
Eppure c’è chi crede che il cinema stia morendo in piedi: è questa la tesi sostenuta da Peter Greenaway in una delle interviste che fanno da contorno ai cortometraggi. E forse questo suo istinto di voltarsi indietro nasce davvero dalla necessità di darsi un’illusione di vita nuova, rivestendosi di quella che si è lasciato alle spalle. Voler evidenziare il contrasto tra ieri e oggi può essere anche solo un banale tentativo di convincersi che il tempo, per lui, non si è fermato, e che se tanta strada ha fatto, non è possibile che proprio adesso abbia cessato di andare avanti. Bisogna ammetterlo: al di là del superficiale fascino di questo provocatorio anacronismo, c’è qualcosa di inquietante nel gesto di specchiarsi in un oggetto da museo, che cento anni di progresso hanno cercato in ogni modo di superare, di relegare tra le cose primitive. Qualcuno, nel film, vi si avvicina con circospezione, dopo averlo definito una reliquia: e in quell’istante l’olfatto si riempie del sentore pungente di una vecchia cripta. Mentre la mente pensa con terrore che grattare via la polvere è l’estrema misura a cui ricorre chi ha smarrito qualcosa di prezioso.
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