Regia di Vincent Dieutre vedi scheda film
“A volte, le parole mi sembrano vuote. Ma sono l’unica cosa che abbiamo.”
Una verità assoluta, quella che il linguaggio spesso non basta a descrivere gli accadimenti interiori ed esteriori con cui ci confrontiamo. Presa coscienza di ciò, comunque, le parole – che si manifestano nel film come voci fuori campo del regista, delle persone con cui si relaziona, o che semplicemente intervista – delineano (insieme a immagini crude, grezze, ma proprio per questo di una bellezza disarmante) un paesaggio complesso, vasto, difficile da analizzare.
Ma Orlando ferito si configura proprio come una ricerca personale ma al contempo collettiva su quello che dal 1984 è cambiato, o non è cambiato affatto, cercando di cogliere tante realtà che si sono sempre più allontanate tra loro, pur convivendo nella stessa società. È in questo modo che entriamo nel viaggio del regista, turista francese che s’immerge con fare romantico ma allo stesso tempo critico in una Palermo contraddistinta da grandi discrepanze al suo interno. Una Palermo in cui convivono bellezza e rovina, speranze e catastrofi, cultura e ignoranza, solidarietà e omofobia, indifferenza e piccole rivolte quotidiane. Una situazione, questa, esistente in tutta Italia per la verità, dilaniata da vent’anni di berlusconismo, in cui il silenzio disarmante dei cittadini e il muto consenso al fascismo profetizzati da Pasolini hanno ucciso le lucciole, le uniche a brillare in un panorama così deserto. E allora perché scegliere di osservare, di vivere, di indagare proprio una città come Palermo? La risposta risiede, e può risiedere soltanto in un piccolo centro nel cuore della città dove le marionette, i pupi, con una tradizione storica e folkloristica alle loro spalle non indifferente, prendono vita tramite i pupari che, con il loro cunto, un linguaggio di altri tempi, con fare narrativo e poetico mettono in scena un Orlando che si fa portavoce proprio delle lucciole, i “luciolini”. È in questo modo che nel film di Vincent Dieutre si miscelano piccole realtà poetiche, immagini televisive sporche, paesaggi notturni mozzafiato, storie d’amore casuali, approdi a Lampedusa colmi di morte e di speranze, profezie catastrofiche, giovani ribellioni, considerazioni d’intellettuali, squarci di realtà emarginate e nascoste, pensieri popolari.
Il tutto avviene con toni altalenanti, che vanno dall’epico al realista all’autobiografico, con mille sfumature intermedie. Probabilmente lo stile risente di questa policromia, e risulta difficile catalogare il film, decidere se si tratta di un documentario o di qualcosa di più sfumato. Non vi è uno sviluppo interno coerente nella trama, si tratta più che altro di spezzoni che sono stati inseriti nello stesso puzzle senza un ordine preciso. Forse è proprio questo l’intento del regista, per farci entrare in una sua riflessione ancora fresca, genuina, non del tutto maturata e razionalizzata, e far sì che questa bellezza possa essere rielaborata dallo spettatore in maniera diversa. Una cosa è comunque certa: si tratta di un film che va visto, probabilmente sarebbe auspicabile una proiezione didattica nelle scuole, perché il film è denso di significati che ci riguardano, sui quali non possiamo essere indifferenti. È questo forse il miglior pregio del film: quello di fornirci innumerevoli spunti per una riflessione partecipata, perché, in fondo, il finale sembra proprio dirci che le lucciole notturne siamo noi, non è vero che siamo scomparse, abbiamo solo bisogno di riunirci.
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