Regia di David Dobkin vedi scheda film
The judge è un film che, sotto le mentite spoglie del legal-thriller, manifesta tutt’altre pretese (anche un po’ ambiziose direi). Solo che, se è certamente positivo darsi obiettivi alti, bisogna anche sapersi preparare al… peggio.
E, “in”/”con” questo film, non tutti (alcuni sì) hanno dato prova di possedere tale capacità.
Dicevo, un legal-thriller. Aggiungo, ora, duro e puro… ma (facevo finanche intendere) solo in apparenza.
Certamente trae fondamento da un storia umana (quella di un uomo - un “decrepito” giudice di una piccola realtà della provincia americana - accusato di un omicidio e difeso dal brillante avvocato - suo figlio - che ha fatto carriera in quel di Chicago), giudiziariamente semplice e lineare (in ordine alla dinamica dei fatti ed alle opzioni giuridiche a disposizione della difesa), che trova principale allocazione (orologio alla mano, per la maggior parte del tempo) in un’aula di giustizia.
Eppure un legal-thriller di facciata perché non è di questo che intendono parlare gli sceneggiatori. Perché il suo indiscusso fondamento è un altro, puntellato da svolte e giravolte umorali, foriero di crisi d’identità e denso di emozioni forti. Un dramma complesso e profondo, che sfrutta le aule di giustizia per scatenare reazioni violente negli spettatori: paganti (quelli venuti ad assistere lo show di R.Downey Junior) e non (quelli venuti ad assistere allo show dell’avv. H.Palmer).
E, tuttavia, troppa carne al fuoco (ove mal gestita) rischia seriamente di mandare in sovraccarico la narrazione. Con annesse scintille, puzza di fumo ed inceppamento dell’ingranaggio.
Come nel caso di specie.
L’adozione di un ritmo espositivo blando e trascurato, ma, al contempo, isterico ed in balia di bruschi stop & go (inattesi come gli sbalzi d’umore dei protagonisti, ma, d’altronde, prevedibili come lo sono le umane debolezze) non giova all’economia del racconto. Né giova la grossolana caratterizzazione dello “spaccone” protagonista (non a caso - dato il suo cursus honorum - R.Downey Junior), rappresentato all’apice del suo tracimante cinismo (LAMPUR) dapprima per farne un guascone (sulla carta) irresistibile (ma quando mai?) e, poi, per enfatizzare i risultati del suo cambiamento.
Ma questo, devo dire, funziona già meglio.
Bella e vera (vera!!) è la storia degli uomini che lacerano la loro veste esteriore (quale che sia: da vincenti o da perdenti) per abbandonarsi al loro essere ed al loro destino; per vivere, semplicemente, con autenticità (l’unica cosa che conta davvero) gli ultimi giorni (che siano pochi o - chissà - ancora molti), ma, soprattutto, gli unici che avranno mai da vivere.
Ed anche lo sviluppo di più percorsi di vita e vicissitudini umane su binari paralleli che finiscono per avvicinarsi e, poi… accostarsi fino a risultare molto, molto vicini…benchè non rientri nel novero delle idee originali si lascia benvolere ed apprezzare. Perché placa quel senso di smarrimento e di rammarico che tutti abbiamo provato, almeno una volta. Perchè allevia un poco le ferite, senza avere la pretesa di cancellare le cicatrici..
Dunque, la sceneggiatura (con tutti i suoi limiti) “c’è”, ma la direzione maldestra (ed inesperta) sfilaccia il groviglio di trame e sottotrame e mina alla compattezza complessiva dell’opera che, alla fine, regge solo per la buona predisposizione del pubblico (quello pagante) e non tanto per i meriti dell’anonimo D.Dobkin.
Il risultato, epperò, non è così modesto, ergo la mia analisi non deve dissuadere - tanto i volenterosi che amano il genere quanto gli appassionati di storie su drammi familiari a tutto tondo - dal dedicare un po’ di tempo a questo film. “Complessivamente” decoroso.
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