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I fratelli Karamazov

Regia di Petr Zelenka vedi scheda film

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La recensione su I fratelli Karamazov

di OGM
10 stelle

Nowa Huta doveva essere una città senza Dio. Stalin volle costruire, alle porte di Cracovia, un plesso industriale in cui il mondo operaio potesse riconquistare il primato su quella che, fino ad allora, era sempre stata considerata la capitale intellettuale della Polonia. Il progetto, tuttavia, a lungo andare si rivelò un’arma a doppio taglio: fu proprio da fabbriche come quella grande acciaieria che partì il movimento antisovietico di Lech Walesa. La produzione, nel frattempo, è quasi completamente cessata, la maggior parte degli impianti sono stati dismessi, ma nei capannoni sono rimasti appesi gli striscioni di Solidarnosc. È in questi spazi desolati e sudici che una compagnia di attori praghesi si reca per mettere in scena un adattamento teatrale del romanzo I fratelli Karamazov. L’iniziativa fa parte di un programma, finanziato dall’Unione Europea, mirante a portare l’arte nei luoghi della realtà, vicino alle persone che lavorano, in mezzo alla vita della cosiddetta gente comune. Lo spettacolo è un concentrato di esplosioni passionali e dilemmi filosofici, in cui l’amore  si confronta con l’odio, mentre il rapporto tra padre e figlio diviene il terreno di un conflitto profondo, violento, lacerante, fittamente intrecciato con la disperazione di chi ha perso di vista il senso ultimo dell’esistenza. Vivere o morire, salvarsi o farsi dannare è, comunque, un’impresa maledetta, che costringe l’anima a macchiarsi con l’infedeltà, l’incoerenza, il paradosso che si traduce in perversione. La rabbia è non poter essere stessi fino in fondo, il dolore è non capire dove si stia andando, la follia è non riuscire più a distinguere la verità dalla finzione. Cercando le risposte, ci si avventura nel tortuoso labirinto delle emozioni che la letteratura pretende di spiegare: un compito che affatica i personaggi, i quali devono essere in grado di provare i sentimenti, agire di conseguenza, e intanto ragionarci attentamente sopra.  Questa gravosa missione li rende straordinariamente grandi, potenti, eroici, al pari di guerrieri catturati dai micidiali lacci della storia, eppure perennemente ribelli e combattivi. Pensieri e parole sono tutt’uno nella forza penetrante delle loro sensazioni urlate, recitate come proclami, presentate come testimonianze paradigmatiche (e, in parte, mitiche) di un’umanità perduta. Questi semidei non sono come noi, però sono le personificazioni amplificate dei nostri mali, dei nostri dubbi, di tutte le principali questioni irrisolte. Guardandoli, possiamo finanche distrarci dai nostri guai: vederli nobilmente trasfigurati ci solleva, almeno per un attimo, dalla miseria delle nostre pene.  La drammaturgia è in grado di sviscerare lo squallore, trasformandolo in un’opera creativa: lo fa diventare un cuore pulsante, servito su un piatto d’argento, che appare come un miracolo, anche quando l’ambiente è fatto di vecchie ferraglie e polverosi rottami. C’è un uomo, tra il pubblico, che si inebria di una misteriosa gioia, mentre, in quella maniera, gli viene porto il suo stesso lutto: lo strazio per la tragica perdita del figlioletto di soli sette anni, vittima di un incidente avvenuto proprio in quel luogo. Sorride, osservando gli attori, e mostra un comportamento del tutto innaturale. Non sembra vero, forse è lui stesso un attore. O forse è soltanto un individuo rimasto impigliato nella crepa sottile che separa la vita vissuta da quella immaginata, appartenente al regno delle ipotesi, dove tutto è tranquillamente possibile, e tutto può risultare magnificamente logico.  La fantasia, allora, diventa una sublime forma di rassicurazione: un’espressione di libertà, un modo per affrancarsi dall’obbligo di percepire la sofferenza come un peso, l’afflizione come un vicolo senza uscita.  I perché si aprono su un orizzonte pieno di idee. E il loro volo cessa soltanto nell’attimo in cui, anche in assenza di un sipario che cala,  dal palco viene pronunciata la battuta finale, che chiude la breve parentesi di un’illusione. Questo film ci trascina prepotentemente dentro una magia che è fatta di energia morale, di spirito critico, ma, soprattutto, delle imprevedibili prodezze di una mente vagabonda.  I piedi sono attaccati saldamente al suolo, e si lasciano contaminare di buon grado dalla sua sporcizia, il fango con cui l’inferno ci chiama a sé.  Nel frattempo, qualcosa di indefinito rapisce lo sguardo verso uno splendido, ma ingeneroso, Cielo.  

 

Bracia Karamazovi ha rappresentato la Repubblica Ceca agli Academy Awards 2009.   

 

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