Regia di Sebastiano Riso vedi scheda film
A parziale dimostrazione che dai momenti di crisi più profondi possono emergere energie nuove e più coraggiose, l'esordio del regista siciliano Sebastiano Riso si colloca come una delle proposte più interessanti della stagione che fa intravedere quello che, si spera, venga confermato come la nascita di un autore. Per misurare la forza comunicativa e lo smarrimento che Più buio di mezzanotte rilascia nelle corde più intime dello spettatore basterebbe assistere dopo la proiezione a qualche trailer di tanti, troppi prodotti dell'industria del cinema, per percepire il distacco, la lontananza, la pulizia morale che separa il film di Riso dalle immagini fotocopia che il cinema di consumo stancamente propone. L'inizio folgorante disorienta per efficacia e sintesi di scrittura, poche sequenze lineari per immergersi in una Catania anni 80 gravata da luci notturne e privata di ogni orpello oleografico che concederebbero distrazioni e giustificazioni alla vicenda dura e pura che riguarda un adolescente, Davide. Attratto dalla scoperta della sua identità sessuale, lo è altrettanto dalla ricerca di una vita differente da quella che lo circonda, il suo è desiderio di libertà totale, di rottura con gli schemi sociali, di rifiuto di omologazione e di conseguente caduta nel silenzio. Il percorso di formazione di Davide non è solo proiettato alla conquista di una sessualità diversa, ma traccia un segno forte di denuncia politica nei confronti di una società in putrefazione da quanto è immobile e stagnante nei suoi pseudo valori, incapace di guardarsi dentro con lucidità. La mdp del regista riproduce quello che potremmo richiamare come "cinema verità" non concedendo nulla alla spettacolarizzazione della realtà, non togliendo e nè aggiungendo elementi che potrebbero offrire scorciatoie semplificate davanti alla scabrosità delle immagini. Quando a metà del film, in mezzo ad una folla variopinta e in delirio, Davide e i suoi amici, che possiamo ricondurre ai ragazzi di vita pasoliniani, vengono ripresi in una festa (e quanta vera "grande bellezza" scorre in questa sequenza.....) dove l'attrazione è rappresentata dall'ospite transessuale che finge di cantare e di vivere in un agognato altrove (Londra), si raggiunge uno dei livelli emotivi più drammatici di ciò che le immagini mostrano. Quella realtà, con la gioventù sfaldata e in preda ad un panico interiore che non sa più dove rivolgersi se non verso il richiamo più rumoroso, diventa uno specchio mostruoso e veritiero della quotidianità, della lacerazione del tempo di vivere, di ciò che l'individuo sa di non poter esprimere di sè compiutamente in balìa di una società disumanizzata e traditrice. Lo sguardo del regista non è più l'insieme autoregolato dei simboli che mette in scena, diventa una vera e propria lingua che come un soggetto autonomo parla direttamente all'inconscio di ognuno. Un'altra linea guida del film è la concatenazione musicale, l'identificarsi con i testi di canzoni di facile ascolto, che però sono l'unico vero traino verbale possibile di comunicazione con l'esterno del loro ambito sociale e che possono concedere ai protagonisti uno spiraglio di riconciliazione con la loro disperata e vitale quotidianità. Il conflitto con la figura del padre di Davide assume un forte valore simbolico di scambio fra i due personaggi, fra ciò che si è, quello che non si vuole vedere, e ciò che si sente di essere, tutto esteriorizzato in maniera negativa e sofferta. Ma, questa è la mia vita, direbbe Godard, e i veri dolori sono quelli autoinflitti. Parola di Sebastiano Riso.
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