Regia di Woody Allen vedi scheda film
43° film di Allen. Quasi una risposta al finale di Ombre e nebbia (al quale peraltro si collegava anche il migliore dei film alleniani recenti, Midnight in Paris): abbiamo davvero bisogno delle illusioni? È quello che arriva a domandarsi Stanley Crawford alias Wei Ling Soo, che fa l’illusionista di professione ma crede solo nella realtà sensibile: scettico, sarcastico, è “un perfetto depresso che sublima ogni cosa nella sua arte” eppure ha nostalgia di una fede. Quando un collega lo chiama a smascherare una presunta medium che sta irretendo una facoltosa famiglia francese, lui crede di avere a che fare con l’ennesima ciarlatana. La prima parte è un confronto diretto fra un razionalista intransigente e una ragazzotta della quale non si sa cosa pensare: è un’ingenua toccata dalla grazia o una cinica truffatrice? Situazione intrigante, giocata su un equilibrio sottile, ma la cui posta in gioco è altissima: se quelli da lei evocati sono veramente spiriti, allora esiste un aldilà ed esiste anche Dio; temi che da un po’ di tempo Allen non affrontava con tanta serietà, nonostante il contesto da commedia. Poi arriva la prima svolta: lui deve arrendersi all’evidenza, la ragazza sembra effettivamente avere facoltà paranormali; la vita assume un altro sapore, lui può deporre il suo rigido autocontrollo e abbandonarsi ai semplici piaceri che fino ad allora si era negato. Ma è tutta apparenza: c’è un nuovo ribaltamento, che però non riporta esattamente alla situazione di partenza. A quel punto il lieto fine è scontato, ma ha un suo perché: forse l’unica magia che esista al mondo è quella chiamata amore.
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