Regia di Woody Allen vedi scheda film
Noi altri nel dimenticato centro Italia sponda adriatica si dice che in taluni contesti “‘nti pu’ sbaja’” (“non ti puoi sbagliare”). Negli ultimi quindici anni, il caro Woody ha infallibilmente alternato un film buono, se non ottimo, ad un film discutibile, se non proprio evitabile. “‘nti pu’ sbaja’” e, infatti, dopo Blue Jasmin è il turno del film discutibile ed ecco qua Magic in the Moonlight. Che se non altro pone una questione abbastanza pregnante sul senso di una politica degli autori contemporanea.
Intendiamoci: fosse stato di un John Doe qualunque, il film sarebbe risultato finanche buono. Cosa gli manca, in fondo? È la confezione che comanda, nello spettacolo d’autore del cinema d’oggi, basta un’idea anche piccola da incorniciare, qualche personaggio che ha qualcosina da dire e il nome dell’autore (Woody, che intanto è diventato autore di culto anche presso le nuove generazioni). Altro non occorre.
Magic in the Moonlight è innanzitutto un’operazione industriale che recupera il tema della magia già presente in qualche Allen minore (escludo il malinconico gioco fantastico del capolavoro La rosa purpurea), mette in scena due divi non del tutto da box office come Firth e Stone ed evoca le atmosfere retrò del vagamente sopravvalutato Midnight in Paris che ha segnato una tappa fondamentale nella ricezione dell’ultimo Allen.
Superando l’ormai stucchevole critica sulla dimensione turistica degli Allen europei (è comunque il suo sguardo sul vecchio continente, condivisibile o meno), è evidente una confezione di grandissimo fascino (su tutti la fotografia di Darius Khondji dal sapore brillantemente impressionista), ma certo altrettanto non si può dire dell’intreccio, di un’esilità quasi irritante per un narratatore d’umori e rivelazioni come Allen, tanto capace di costruire film attorno a stati d’animo (per me restano insuperabili i cosiddetti minori Un’altra donna e Settembre) quanto di gestire cori ora tragici ora buffi (dai Crimini e misfatti alle sorelle di Hannah).
Se si escludono le sequenze con Ellen Atkins anziana zia bevitrice e socialité, il film denuncia una certa pigrizia da parte dell’autore nel disegnare personaggi purtroppo senza smalto, compresi i due protagonisti mal assortiti e un po’ troppo macchiettisti. E non che ciò sia un male di per sé, ma è un sintomo della mancanza di equilibrio tra le varie componenti del racconto (commedia, magia, romcom). Tantè che non funziona il cotè romantico tra Firth e Stone, cui non credi un momento e troppo votato alla funzione magica dell’amore per essere non dico credibile ma almeno potabile.
Malgrado le coppie in sala, perlopiù aspiranti eredi di Amélie e hipster di seconda mano, si sbaciucchino rapite dal sentimentalismo che un romantico come me poco percepisce, il film è, a mio avviso, tra i peggiori esiti degli ultimi tempi (comunque migliori dei terribili Vicky Cristina Barcelona e To Rome with Love) non tanto per ciò che effettivamente è, ma per ciò che poteva essere e non è e ciò che voleva essere e non è. E la ragione è semplice, senza troppe pippe mentali: scorre lento, non diverte, annoia.
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