Regia di Jean-Marc Vallée vedi scheda film
Randagia.
Come il suo nome.
Selvaggia.
Che sta per libera, fuori dagli schemi e dai ruoli che la società e le sue convenzioni impongono.
Libera di essere se stessa.
Di stare in piedi da sola. Di camminare con le proprie gambe, sostenuta dalle sue sole forze.
Libera di pensare a se stessa e fare qualcosa per se stessa.
Libera di poter scegliere.
Di vivere consapevolmente.
E non lasciarsi vivere.
Il lungo cammino in solitaria per attraversare il Sentiero delle Creste del Pacifico, un itinerario di più di 1000 miglia dalla California al Canada che ogni anno chiama all’appello una manciata di intrepidi ed integralisti del trekking, è la possibilità concreta per Cheryl di tenere fuori il mondo (civilizzato), la vita comune, le sue insane distrazioni e di guardarsi dentro, e passare in rassegna gli ultimi tormentati anni della sua esistenza, quando improvvisamente si è ritrovata sola e persa, avendo smarrito (o essendo stata derubata di) tutte insieme le sue poche ma solide coordinate che le davano la forza di condurre, seppur tra mille difficoltà, una vita dignitosa, normale, serena e colma delle attenzioni e dell’affetto del marito.
La perdita della madre, unico e amatissimo genitore, insostituibile riferimento, faro nella nebbia, roccia a cui aggrapparsi nelle acque tempestose, luce nell’oscurità più fitta, le ha procurato dentro una profonda ferita da cui sono sgorgate una serie di contrastanti micidiali emozioni, tanto insostenibili da condurla sul barato dell’annichilimento irreversibile.
Vivere sul filo del rasoio. Senza limiti. Autodistruggendosi.
Per dire a se stessa di poter decidere della propria vita.
Non come sua madre, che è sempre stata solo moglie e mamma. E mai donna.
Per fare esperienza. Provare ogni cosa. Prima che sia troppo tardi.
Prima che la morte arrivi a portarti via.
Come è successo a sua madre.
Strappatale quando era ancora giovane bella felice e innamorata (scriteriatamente) della vita.
Per non finire a fare la cameriera e campare di stenti.
Per non essere messa all’angolo, buona solo a sfornare figli e badare alla casa.
Magari legandosi ad un uomo sbagliato. Che le rovinerà la vita.
Come è successo a sua madre.
Possono renderci agonizzanti e infine ucciderci il senso di impotenza di fronte all’inevitabile, che ci sorprende a guardare, attoniti e rassegnati, il nostro piccolo malandato eppur accogliente universo andare in frantumi; il dolore lancinante e lacerante; la rabbia mista all’amore immenso nei confronti di colei che ci ha messi al mondo, di cui non concepiamo e condividiamo le ragioni che l’hanno portata ad essere la donna (o meglio la pallida imitazione di una donna) che noi, suoi figli, conosciamo, sempre amorevole e affettuosa a dispetto della tragicità delle nostre condivise vite sconfitte.
Di cui nemmeno il buon dio si cura, impegnato a dispensare miracoli altrove.
Così è accaduto a Cheryl (e a tante figlie come lei), la quale, però, adesso, ha deciso di reagire.
Cimentarsi in questa sfida alla sopravvivenza nella natura ostile e selvaggia non è altro che una prova generale per la sfida ben più ardua e imprevedibile che è la vita, lì, ad aspettarla alla fine del faticoso percorso.
Nel suo viaggio ai confini del mondo, più di una volta guarderà negli occhi il panico e affronterà senza debolezze, senza disertare, quella sensazione pietrificante (che accompagna un lutto importante) di scoprirsi senza pelle, di sapersi sola e sguarnita a fronteggiare -da donna, nella testa e nel corpo- le infinite incognite dell’esistenza, i pericoli e i suoi innumerevoli ostacoli disseminati lungo l’accidentata traversata.
Per poi ritrovarsi non così tanto lontano da dove era partita, dai ‘banali’ desideri e dalla gioia non più così misteriosa ma finalmente comprensibile di quella madre perennemente sorridente e priva di rimpianti nonostante tutto continuasse a marcirle intorno.
Lo scrittore inglese Nick Hornby adatta per lo schermo l’autobiografia di Cheryl Strayed, traendone un racconto di acuta intelligenza emotiva, profondamente femminile nel respiro, nello sguardo, nell’approccio alla vita.
Chiamarsi donna è una sublime fregatura.
Un pesante fardello, come un enorme zaino sulle spalle, più ingombrante che pratico.
Ma non per questo essere donna significa scontare una condanna, subire un castigo, espiare la propria colpa originale. Soccombere.
Jean-Marc Vallée traduce lo script di Hornby in immagini di sensibile asciuttezza, impregnate del dolore intimo e privato che racconta, la cui portata devastante risulta sempre contenuta, ben calibrata grazie ad uno sguardo lucido ed essenziale, duro ma insieme delicato, autenticamente commovente in quegli scorci di vita passata che riemergendo dagli abissi dell’anima squarciano il presente come arroventate lame di rasoio.
Dopo Dallas Buyers Club il regista pare voler ancora dirci (spetta a noi crederci) che per quanto sia disastroso e senza speranza lo scenario in cui siamo calati, immersi fino al collo, non è mai tutto perduto, perché è sempre possibile rinascere dal proprio precoce avvizzimento e guardare il mondo sotto un’ottica differente.
Per continuare, così, il cammino che ci resta da fare.
Affidandoci esclusivamente ai nostri occhi, dando voce e corpo alle nostre sensazioni, ai nostri bisogni.
E cosa importa se la vita degli altri, della maggioranza, scorre ed evolve secondo modalità e ritmi differenti.
L’importante è trovare la propria strada e in essa riconoscersi.
E Cheryl Strayed può dire di esserci riuscita.
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