Regia di Wes Craven vedi scheda film
Può piacere o no, affascinare o lasciare indifferenti (anche se sfido sfrontatamente il giudizio di chiunque si trovi in quest’ultima condizione), ma una cosa è certa: “Il serpente e l’arcobaleno” è – nel cinema horror – campione assoluto (e dico assoluto!) di originalità.
Dimenticate tutto ciò che sapete di questo meraviglioso e inesauribile genere (inesauribile solo finché ci sono registi come Craven a nobilitarlo con capolavori come questo), dimenticate vampiri, licantropi, serial killer, fantasmi, possessioni e zombi (perché d’accordo, il film in analisi affronta sì quest’ultimo argomento, ma si tratta solo di una facciata, un aspetto sulla superficie).
Fate tabula rasa e preparatevi a veder spalancate quelle porte che dall’ignoto conducono al terrore più ancestrale, primigenio, atavico, ancorato a culture e tradizioni lontanissime, quindi per questo spaventose e temibili, come è spaventoso e temibile tutto ciò che è sconosciuto.
Guai a considerarlo esclusivamente e banalmente come un film che parli di voodoo e magia nera. Perchè in verità c'è molto ma molto di più.
Scavando e scavando alla ricerca delle origini più profonde di una paura assoluta e abissale, Craven riesce a renderla autentica, palpabile.
Figurativamente parlando, “Il serpente e l’arcobaleno” si rivela come un caleidoscopio allucinato fino all’inverosimile, sfrenatamente onirico, complesso eppure mai faticoso, costantemente prossimo a flirtare con le più tetre deviazioni della psichedelia.
In questa straordinaria e imperdibile pellicola troviamo la variante straniatamene esotica di Lovecraft, che si dispiega attraverso imperscrutabili sentieri come fosse un Herzog virato all’horror.
L’opera in analisi non ha eguali. È ben più che imperdibile. È il vero capolavoro del regista assieme a “Nightmare”. E, soprattutto, è un film colpevolmente, tristemente e gravemente rimasto nell’ombra di un regista noto ai più solo per il già menzionato primo capitolo della saga di Freddy Kruger, nonché per quella di “Scream”.
In realtà il suo genio è tutto qui, in un film miracoloso che possiamo veramente definire visionario. Parola questa della quale è stato fatto eccessivo abuso in ogni dove, ma che qui acquista un senso compiuto, trova una propria dimensione e un proprio imprescindibile perché. Trova, in sostanza, un’autentica definizione nella pellicola stessa.
Impossibile scegliere una sequenza memorabile su tutte, perché ad essere memorabile è il complessivo flusso che vede coinvolto un perfetto Bill Pullman in un agghiacciante vortice di orrori, sogni, torture, riti e culture. Un turbine mai così ammaliante, seducente, affascinante e avvincente.
Poi, se proprio costretto a scegliere suddetta sequenza, menziono quella che vede il protagonista sepolto vivo assieme a una tarantola. E non ho bisogno di raccontare di più.
La mancata visione di un film del genere è una vera e propria perdita per chiunque ami il cinema.
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