Regia di Vítor Gonçalves vedi scheda film
Quattro personaggi o poco più, una manciata di dialoghi dimessi, e qua e là qualche fiumiciattolo di parole proferite fuori campo a ritmo blando con voce monocorde dal protagonista. Poi immagini statiche, messinscena sciatta, colori smorti e paesaggi autunnali, con l'inserimento di tanto in tanto di riprese in 8 millimetri con scorci di natura selvaggia. Questo è A Vida Invisível del portoghese Vítor Gonçalves, in concorso all'ottava edizione del Festival del Film di Roma. Questo e nulla più.
La storia, se così la si vuol chiamare, è quella di Hugo, un funzionario ministeriale sulla quarantina, e delle riflessioni scaturite in lui dopo la morte per cancro dell'amico e collega Antonio. Mentre osserva un filmino da questi girato, ripercorre gli ultimi contatti avuti con lui e quelli con Adriana, la donna che ha amato, un'assistente di volo alla quale lo lega (e dalla quale lo divide) un rapporto ormai involuto e stanco. Involuto e stanco come l'incedere di questo interminabile supplizio: 99 minuti di lentezza estenuante e compiaciuta, senza un sensibile approfondimento psicologico né sviluppi di altro tipo.
La vita invisibile del protagonista, che Gonçalves vorrebbe mostrare, assume le fattezze di un film che scambia il minimalismo narrativo con una staticità costretta e gratuita, che ambisce ad affrontare argomenti come l'amore e la morte ma manca totalmente di profondità, che vorrebbe parlare di vuoto interiore e disagio esistenziale ma si limita a riprendere corpi e fatti che gli restano estranei, finendo per risultare oltremodo faticoso e fondamentalmente irrisolto.
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