Regia di Roger Corman vedi scheda film
Solo coloro che (come il sottoscritto) hanno lasciato il cuore nei favolosi sixties possono comprendere appieno la sublimità artistica di quest’opera. Per tutti gli altri, “The Trip” (il titolo italiano è insulso, inappropriato, insensato) ha comunque un’importante valenza didattica.
Pellicole dalla tematica prettamente incentrata sulla psichedelia, in quegli anni, uscivano come se piovesse; molti erano filmini prettamente commerciali e mediocri (“Head”, 1968, di Bob Rafelson), altri invece opere ben più riuscite (“Psych-Out”, 1968, di Richard Rush).
Quest’opera di Corman invece si erge a sommo capolavoro del suddetto sottogenere: una fotografia perfetta dei propri tempi, che a sua volta ha contemporaneamente contribuito a definirne le tendenze.
Ridotta quasi a zero la trama, resta l’immaginario di un’epoca: un lungimirante e piacevolmente disorientante mix di immagini e luoghi, simboli e situazioni (a)tipiche (si dice sia stato scritto, tra gli altri, da un Jack Nicholson sotto acidi, e non facciamo affatto fatica a crederci) tenute assieme da un montaggio che “scolpisce” l’intera pellicola, mescolando i tantissimi elementi visivi di cui essa è composta in modo da rendere alla perfezione quell’idea di caos e scombussolamento propria del trip da LSD.
Quella attuata ne “Il serpente di fuoco” è la sintesi culturale di una generazione che, nel fuggire da una realtà considerata insoddisfacente, andava alla ricerca di quella che allora era definita come “insight”, concetto traducibile e interpretabile come la suprema conoscenza e comprensione di sé e di tutte le cose. Un abbandono quindi delle responsabilità e un addio (solo temporaneo e fittizio) alla materialità di ciò che ci circonda per poter sentire pulsare l’energia vitale da un frutto (la bella sequenza dell’arancia).
Nel poster del film viene azzardato un azzeccatissimo anagramma della parola “LSD: a Lovely Sort of Death”. Proprio il tema della morte, infatti, attraversa questo “Trip”. Ma non temete: non siamo né in una ballata onirica di Fellini né in una delle profonde esplorazioni interiori di Bergman. Questo è semplicemente un “bad trip” (esperienze psico-fisiche definibili come negative o spiacevoli per il soggetto) che il regista mette in scena non mancando di inserirvi il suo gusto per l’horror e realizzando il tutto facendo come sempre tesoro di un budget (più o meno) ridotto.
Un viaggio che piano piano ci rende testimoni prima e partecipi poi dell’impossibilità di distinguere la realtà dall’allucinazione, impossibilità resa ancora più evidente dall’ambiguo finale. Che la vita, forse, non sia altro che un sogno?
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