Regia di Juraj Herz vedi scheda film
Nella Cecoslovacchia degli anni trenta, il signor Kopfrkingl (Rudolf Hrusinsky) lavora con invidiabile spirito di abnegazione nel crematorio della città di Praga. Fervido sostenitore della filosofia buddista, Kopfrkingl crede nell’immortalità e nella trasmigrazione delle anime. Questi principi permeano fortemente il suo lavoro di crematore di cadaveri, che svolge come se si trattasse di una missione superiore finalizzata a liberare i corpi dalle impurità terrene. La sua personalità oscilla tra la scropolosità dell’impiegato ligio al suo dovere, la mitezza del buon padre di famiglia e l’ambiguità dell’uomo estremamente ambizioso che vive un rapporto morboso con la morte. L’avvento del nazismo gli offre la possibilità di scalare posizioni nelle gerarchie sociali. Può fare carriera in tempi molto rapidi. Deve solo scegliere se liberarsi o meno delle persone che potrebbero intrecciarla.
Rudolf Hrusinsky è Karel Kopfrkingl
“L’uomo che bruciava i cadaveri” di Juraj Herz è una delle gemme più nitide della Nova Vlna, ovvero, di quell’ondata cinematografica che lungo tutti gli anni 60 vide nascere in Cecoslovacchia diversi registi di indubbio talento (Milos Forman, Vera Chytilova, Jiri Menzel, Karel Zeman, Jan Nemec, Jan Kadar, Ivan Passer). Si formarono tutti alla scuola cinematografica di Praga (la FAMU), e se da essa acquisirono le conoscenze tecniche per dare forma cinematografica al loro talento creativo, dal clima di oppressione che regnava nel loro paese dal 1948, mutuarono la ferma opposizione contro il regime sovietico. La Novà Vlna si configurò, quindi, come un’ondata di creatività libertaria tesa a mettere sotto il vaglio della critica il potere costituito. Sempre utilizzando la tecnica cinematografica al servizio di una lettura in chiave allegorica della società cecoslovacca e sempre coniugando le premesse artistiche con i presupposti politici. Con opere pervase di humor nero, di una forte carica visionaria e di un senso del tragico alleggerito da una sapiente leggerezza del tocco.
“L’uomo che bruciava i cadaveri” rappresenta un ottimo compendio dei tratti poetici della Nova Vlna, tutto concentrato nella figura onniprente di Kopfrkingl, con il suo corpo a trasmettere un senso di sinistra ambiguità e la sua voce off che invade la scena sovrapponendosi alla descrizione per immagini delle sue stesse azioni. Attorno al signor Kopfrkingl ruota un’umanità appassita, priva di aspettative emozionanti, di slanci vitali coinvolgenti. Lui emerge per distacco per come sa essere meticoloso nel lavoro e affettuoso in famiglia, alfiere ormai inconsueto di cittadino modello che coltiva la legittima ambizione di migliorarsi socialmente. Il suo regno prescelto è il “tempio della morte”, il luogo di lavoro che lui ha trasformato nell’impresa totalizzante di un’intera esistenza, il fulcro designato per trasformare una vita monotona in un'esistenza esaltante. È simbolo di vita e di morte insieme il crematorio, il punto d’incontro tra le vicissitudini terrene e il riposo eterno, tra il momento del trapasso che strappa una persona alla vita e quello in cui la vita che ridiventa cenere trova la sua massima sublimazione nel fuoco purificatore. Lui patteggia per la morte, glorificandola come la “sola esperienza veramente necessaria” che ad ogni uomo capita di vivere. Un paradosso che gli serve per filosofeggiare intorno alla trasmigrazione delle anime, all’immortalità dello spirito e alla corruzione della carne, di pensarsi in linea con i precetti dei monaci tibetani e di trovare dei giustificati motivi per frequentare impunemente le case di tolleranza. Circondato da un mondo in stato di latente putrefazione, il signor Kopfrkingl può ergersi a cerimoniere iconoclasta senza incontrare obiezioni di sorta. I suoi superiori lo rispettano per la sua rettitudine impiegatizia, i sottoposti lo temono per il suo carattere mellifluo. È talmente pieno delle sue convinzioni “spirituali” da apparire come una sorta di santone laico capace di imporsi sugli altri con la sola forza della persuasione ideologica. Lavora per fare adepti, cercando di portare ognuno a magnificare l’utilità sociale del crematorio, di considerarlo come l’unica possibilità data all’uomo di sottrarre i corpi dalle impurità della decomposizione. Il macchinario della cremazione è venerato come un’icona votiva, il suo funzionamento è visto come un prodigio della tecnica di insuperata efficacia, capace di “estinguere un cadavere in soli settantacinque minuti”. Kopfrkingl vive con sfacciata teatralità il suo lavoro, cadenzando ogni parola e muovendosi nei suoi territori con calcolata circospezione, come chi cerca di seguire un copione prestabilito e intende rimanere conforme alle direttive piovute dall’alto. Non si tratta solo di fare il proprio lavoro con grande senso del dovere, ma di corrispondere con efficienza ad un ruolo preciso all’interno del disegno sociale : quello di rendere la vita e la morte come due facce indistinguibili di una stessa medaglia. È per questo che l’avvento del nazismo lo scopre più avanti nel lavoro, già incline a riciclarsi con successo nel teatro degli orrori. Gli restano da eliminare i soli ostacoli che gli impediscono di certificare in maniera inequivocabile la sua discendenza diretta con la razza ariana.
La regia di Juraj Herz asseconda l’istrionica personalità del signor Kopfrkingl attraverso un montaggio “accelerato” che ce ne restituisce le manie ossessive (come quella di pettinare i capelli dei defunti poco prima di fare lo stesso con i suoi) e il carattere ferino (emblematiche sono le visioni insistite di un leopardo in gabbia). Primi piani frenetici, riprese grandangolari e velocissime istantanee su dettagli minuti, servono allo scopo di vestire di una straniante carica visionaria l’intera struttura narrativa e di inserire Kopfrkingl all’interno di un ingranaggio mortifero molto più ampio. È in corso un delirante progetto dittatoriale e lui vi si allinea con estrema naturalezza e con corrisposta identità d’intenti. Questa architettura della messinscena voluta da Herz punta a parlare dei prodromi di un’oppressione passata per riferirsi agli effetti reconditi di un’oppressione presente, per legare filologicamente il culto macabro per la morte proprio dell’indole nazista con la normalizzazione cruenta dello stato di terrore sancito con la “Primavera di Praga”. Non manca l’ironia a questo gioiello “impuro” della Nouvelle Vague cecoslovacca, tesa ad alleggerire sia la “poetica” dello stile registico che le allegorie dei contenuti narrativi. Grande film.
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