Regia di Vincenzo Marra vedi scheda film
La vita così com’è. Amara e incongrua. Una quotidianità che fa arrabbiare e crea nemici. Una realtà che vede nelle questioni legate alla casa il punto debole di tutte le esistenze. La Napoli di Vincenzo Marra è un grande ventre malato. È il mondo che ospita come può le scorie della borghesia decaduta e di una povertà che fa del suo urlo una poesia giullaresca. In mezzo a ‘e zoccole e alle macchie d’umidità, la sventura diventa uno spettacolo ruvidamente colorito, che si produce negli androni, nei cortili, sui pianerottoli, e in quella specie di burocratico confessionale che è l’ufficio dell’avvocato Umberto Montella. Lui è l’amministratore di una varia infelicità, di una speranza che ormai si è sgretolata insieme all’intonaco e al cemento dei muri, ma che ancora parla orgogliosa del suo glorioso passato. Gli uomini tirano a campare forti della certezza che, un tempo, hanno vissuto. Convinti che viga un diritto di prelazione sul presente, dal quale la prepotenza altrui vorrebbe ingiustamente cacciarli. Il degrado è il principale ospite indesiderato, che si è intrufolato in quelli che una volta erano i piccoli rifugi dell’intimità, modesti ed angusti, ma comunque apportatori di calore e sicurezza. Visitarli, lungo il giro della riscossione dei debiti o della segnalazione guasti, significa andare a toccare con mano le ferite aperte sul cuore, nei cimeli di famiglia, nei ricordi a cui si inevitabilmente si ritorna, in mancanza di altre consolazioni. Laddove non si può più guardare avanti, ci si volge saggiamente indietro, anche solo per ridare valore a quel che resta, rispolverandone la deturpata nobiltà. Il dialetto partenopeo è un modo splendido di armare le parole, rendendole guerriere, cariche di cose vere che puntano in alto, penetrano in profondità, e, all’occorrenza, fanno proprio tanto male. Per esercitare questa accorata bellicosità verbale non occorre l’artistica cornice di un teatro, né la vastità di un pubblico attento e preparato. Discutere, tra vicini, inquilini e portieri, di affitti, spese condominiali, finestre rotte ed odore di gas è già letteratura: è come recitare la ballata delle disgrazie che non vanno via, che continuano a turbinare anche tra le pareti domestiche, che restano impresse come marchi nelle dimore dall’aspetto sempre più spoglio, sempre più minaccioso. Il tema di questo canto in versi sciolti è la precarietà: un vizio inveterato a cui nessuno sa rinunciare, una presenza decisamente molesta che, però, finisce per diventare una fedele e scanzonata compagna. Il fatto è che, stando in bilico, si conserva, forte, il senso della trasformazione, del divenire che, nel mare della rassegnazione, prefigura filosoficamente la salvezza. D’altronde, basta poco per fare rumore, soprattutto negli angoli più dimenticati. Il racconto della gente è una mitraglia in cui riecheggia il raspare dei topi, delle scope, delle cazzuole, di quel faticare che equivale a scavare a mani nude dentro gli abissi della propria miseria. Si conquista un centimetro alla volta, sulla rotta della propria dignità. Intanto si centellina la dilazionata gioia della vittoria: la si trascina, incrollabile, come i cento euro pagati a rate, e come le persone sole, malate o anziane che, anche oggi, hanno strappato un altro giorno alla morte.
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