Regia di Theodore Melfi vedi scheda film
St. William Murray. Ah, il mitico Bill. Lo vedresti ovunque, in qualsiasi contesto: uno spot giapponese per una rinomata marca di sex toys per chihuahua, un'intervista noiosa in un noioso programma televisivo, uno sgranatissimo filmato di videosorveglianza del parcheggio di un banale motel sperduto nel bel mezzo di chissene.
Pure in St. Vincent, allora, debutto di Theodore Melfi (anche sceneggiatore), dramedy alquanto modaiola distribuita da quei volponi dei Weinsetin Brothers. Non un film bruttissimo, né malfatto: semplicemente un lavoro risaputo, visto dozzine e dozzine di volte in ogni sua parte, e serie di svolte, dinamiche, meccanismi, personaggi, morali. Uno scritp che affonda le sue radici nelle rassicuranti fertili terre strabattute del racconto di formazione e di crescita; traguardi raggiunti non senza la conseuta mèsse di situazioni al limite (difficoltà, incomprensioni, cadute e ricadute, piccoli grandi tragedie) e l'edificante formula dell'amicizia. Di quelle "strane": il vecchio ubriacone, solo e solitario, scorbutico, cinico, zotico, disastrato e disadattato da una parte, e il bambino dolce e tenero, che ha appena cambiato casa e scuola a seguito del divorzio dei genitori (pure adottivi), dall'altra. E cosa mai potrà nascerne?
L'insinuante sottotesto "religioso" - apparente sin da subito nelle felici vesti di un prete cattolico sui generis e di un melting pot nei compagni di scuola molto politicamente corretto - serve a dare quel tocco di "particolarità" in più, di originalità che in realtà, molto banalmente, si esplica in riflessioni convenzionali. L'umanità, parrebbe.
Anche gli stronzi ce l'hanno: e così il vecchio ottiene la sua meritata beatificazione perché, sotto la sua dura scorza, c'è del buono. La moglie malata di Alzeimher ricoverata in un istituto di quelli buoni e costosi e a cui ha lavato per anni la biancheria, il suo passato di eroe di guerra, gli "insegnamenti di vita" al bambino vicino di casa. Lo stesso vale per la mamma (Melissa McCarthy), troppo occupata dal lavoro e a denigrare il futuro ex marito pluritraditore, quest'ultimo, tornato per occuparsi del figlioletto, e la "signora della notte" dal "vago" accento russo (Naomi Watts, impagabile), opportunista e figlia di buona donna come poche ma dal cuore d'oro, e incinta. Un epilogo sentimentale troppo marcato, lezioso.
Che giunge, rovinoso, a conclusione di una ordinata miscela di ingredienti, dai sapori conosciuti, ma in grado comunque di dare sostanza e fluidità a un prodotto ben confezionato, dal giusto ritmo (anche se talora affiora un po' di stanchezza) e dalle giuste, professionali (come da tradizione americana della specie), dosi di comicità e drammaticità. Ma il cui merito principale - non una grande scoperta, ovvio - consiste nel lasciar fare al totem Bill Murray quello che sa fare.
Grande, come sempre.
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