Regia di Michele Alhaique vedi scheda film
Bisognerebbe capire con un'indagine accurata cosa scatta nella mente di un attore quando in lui si manifesta il desiderio di passare alla regia. Le tesi al momento sono due: il soggetto in questione riconosce di avere padronanza del mezzo e mette alla prova la propria consapevolezza oppure ha semplicemente voglia di mostrare che sa usare una camera e mettere insieme quattro immagini, che in teoria dovrebbero trasformarsi in racconto. Me lo chiedo soprattutto quando mi titrovo davanti a un ibrido come Senza nessuna pietà, opera prima di Michele Alhaique, che dirige un gruppo di attori amici in una (non) storia non imputabile ad alcun genere cinematografico.
Nel presentare Senza nessuna pietà, si tende a definirlo come un thriller, a volte come un noir e altre ancora come un dramma a sfondo psico-sociale contemporaneo. In realtà, occorrerebbe aggiungere ai generi cinematografici anche il potpourri, ovvero la commistione di elementi tra loro molto differenti usati insieme per indorare componimenti altrimenti inodore e insapore. Al potpourri apparterrebbe, dunque, Senza alcuna pietà, le vicende di un muratore bestia che incontrando la battona bella e sola (come lui) perde il lume della ragione e massacra il mondo che lo ha sempre abbracciato e di cui per inerzia faceva parte. Se per fare un film bastassero gli sfondi di cemento di Roma, il mare o le auto che sfrecciano in fuga da chissà quale persecutore, allora anche i cameramen che realizzano le immagini dei servizi di cronaca nera dei tg sarebbero anche degli ottimi registi, degni di girare un lungometraggio, di presentarlo a un festival e di distribuirlo in pompa magna nelle sale con l'aiuto di un ufficio stampa attento a usare termini e descrizioni fuorvianti, paroloni come strozzino, malavita romana o incontri di anime sole. Si, perché di usura, di strozzinaggio e di riflessioni sociologiche, Senza nessuna pietà è privo come un uccello appena nato mancante di piume. La malavita, nonostante banalmente si inserisca il solito personaggio palermitano losco e bifronte, è un mero escamotage per costruire un racconto che si perde nell'archetipo della fiaba russa, quella in cui non è previsto necessariamente il lieto fine.
Stupisce che in nome di cotanta sciatteria Pierfrancesco Favino abbia scelto di far da produttore e da protagonista al film, ingrassando anche oltre misura senza essere Christian Bale, o che Claudio Gioè si sia prestato al solito cliché del meridionale "antagonista" senza altra scelta o redenzione. Sgomenta vedere Ninetto Davoli alla mercé di un ruolo senza capo né coda come svilisce la forzata descrizione antitetica dei personaggi di Favino e Adriano Giannini. In mezzo a tanta delusione, due note di merito vanno però segnalate: un'incredilmente fatale Greta Scarano, a cui il cinema dovrebbe riservare ben altre migliori occasioni, e la fotografia eccelsa di Ivan Casalgrandi, che mantiene aperte le palpebre dello spettatore. Immancabile, infine, l'uso delle musiche "annunciatrici" (di Luca Novelli e Yuksek) che "telefonano" il pathos delle scene. Per fortuna, si era in quattro gatti in sala: il dolore per lo sconforto di tale visione non lascerà segni in molti.
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