Regia di Lucian Georgescu vedi scheda film
La risposta romena a Ogni cosa è illuminata si muove con passo scanzonato ma incerto. Per un istante sembra volersi timidamente avventurare dalle parti di Nuovo Cinema Paradiso, e invece poi lascia perdere, cambia strada e finisce per arenarsi su una languida rivisitazione dello spirito de I ponti di Madison County. Il tutto avviene senza clamore, sullo sfondo sbiadito di un mondo interculturale in cui i pregiudizi fanno solo un po’ di colore, ma poi stingono in un soffio. Un maturo professore americano, Robert Traub, discendente di una famiglia di ebrei romeni, si reca nei luoghi d’origine di suo padre e suo nonno per ricostruire le proprie radici. Quando si presenta nell’ufficio di Tania, la giovane direttrice dell’archivio anagrafico di una cittadina di provincia, è il classico straniero venuto dal nulla, tanto seducente quanto spaesato, con l’aspetto reso tenero dalla luce di quel desiderio infantile rimasto inappagato. È l’inizio di una storia d’amore, che cuoce a fuoco lento sulla scia di una romantica ricerca del paradiso perduto, della chiave di un mistero che il destino ha affidato al vecchio Sami Grinberg, un proiezionista cacciato dal posto di lavoro, e costretto a vagabondare, a girare di villaggio in villaggio con le sue pellicole, come un anacronistico uomo delle stelle. La tiepida favola, benignamente intinta nel lirico realismo della nouvelle vague, potrebbe abbandonarsi alla suggestione della sociologia fantastica alla Kusturica, da cui pure sembra essere tentata, però non osa: si ferma proprio sulla sua soglia, come su una linea di confine inviolabile, che si possa solo oltrepassare con una manciata di rispettose allusioni. Nella discreta impalpabilità del tessuto narrativo, sfumano anche i sogni ad occhi aperti, e si confondono con la realtà, di cui offrono soltanto prevedibili versioni alternative. Nel frattempo anche la tanto agognata rivelazione del passato si consuma in una grottesca fiammata, che uccide la nostalgia con la banalità di una volgare faida di paese. Che strano, questo film, che brucia la sua vocazione alla multiformità in una blanda rassegna di spunti trasversali ai generi, ma privati della loro carica espressiva, isolati in un contesto che mescola i sapori senza produrre un composto in grado di soddisfare il palato. Alla base di Tatal fantoma si intuisce una volontà di sperimentazione deliberatamente assoggettata alla disciplina, ad un contegno formale che aspirerebbe a farsi stile, però manca di coraggio e personalità. Il quadro è delicato perché misurato, e non perché reso tale da un sensibile tocco d’artista: la sua leggerezza ha il fascino velato delle opere realizzate in punta di dita, ma, purtroppo, non risuona dei soffusi echi dell’anima.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta