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Sentieri selvaggi

Regia di John Ford vedi scheda film

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La recensione su Sentieri selvaggi

di steno79
10 stelle

VOTO 10/10  Il protagonista di Sentieri selvaggi, Ethan Edwards, all'inizio della pellicola torna a casa nel Texas dopo aver combattuto nella Guerra Civile dalla parte dei Confederati. Ethan arriva al ranch di suo fratello Aaron e di sua moglie Martha, con i tre figli Ben, Lucy e Debbie e il figlio adottivo Martin Pawley (che ha sangue cherokee nelle vene), i cui genitori furono massacrati dai Comanche e fu raccolto da Ethan. Tuttavia, Ethan adesso tratta Martin con disprezzo, considerandolo un mezzosangue. Poco dopo il ritorno di Ethan, una spedizione indiana comandata dal capo Scar uccide Aaron, Martha e Ben; le due figlie, la giovane Lucy e la piccola Debbie, sono senz'altro state rapite. Ethan si mette alla ricerca delle ragazze insieme a Martin e a Brad, il fidanzato di Lucy. Quando trovano il cadavere di Lucy, Brad, accecato dal dolore, si scaglia sul campo indiano col suo fucile, ma viene ucciso. Ethan continua la sua ricerca instancabilmente ed ossessivamente, cercando Debbie per ucciderla insieme al capo Scar che l'ha violata, dicendo che una volta che una ragazza bianca è stata catturata dai Comanche, non appartiene più alla sua razza. Martin lo accompagna nel suo percorso, cercando di impedirgli di compiere la sua vendetta...
Riconosciuto al giorno d'oggi come il capolavoro di Ford e uno dei migliori film del cinema americano, al momento della sua uscita Sentieri selvaggi non raccolse assolutamente consensi così eclatanti: si trattava di un'opera per molti versi spiazzante e che trattava argomenti controversi come il passato razzista dell'America, che era preferibile ignorare. Indubbiamente, si tratta di una storia piuttosto cupa, per quanto spesso alleggerita da tocchi di commedia e di humour, dove giganteggia il fosco e ambiguo personaggio di Ethan, magistralmente interpretato da un John Wayne di inedita sottigliezza psicologica: Ethan è un personaggio solitario, nevrotico e ossessionato da un passato violento, non privo di contraddizioni in quanto, nonostante il suo odio viscerale per la razza indiana, spesso sembra essere più vicino agli Indiani che ai Bianchi nel suo modo di agire. Il film è una nuova odissea fordiana che inevitabilmente richiama altri film del maestro come Ombre rosse e Furore, girata con immensa maestria visiva dal fidato operatore Winton C. Hoch in una grande varietà di paesaggi, fra cui principalmente quelli leggendari della Monument Valley. Le sequenze d'azione sono girate benissimo, i momenti più brillanti sono assai gradevoli (ad esempio la scena del matrimonio fra il personaggio di Vera Miles e un improvvisato corteggiatore, che salta quando riappare Martin Pawley, di cui la Miles era sempre stata innamorata, e si conclude con una scazzottata piuttosto briosa fra i due uomini), e il film resta sempre una gioia per gli occhi, soprattutto in certe scene, come quella iniziale e quella finale, in cui la messa in scena fordiana insegue effetti di notevole sofisticazione visiva. Nel cast, oltre a un Wayne da Oscar, da ricordare il bravo Jeffrey Hunter purtroppo prematuramente scomparso alcuni anni dopo, il mitico caratterista fordiano Ward Bond, l'affascinante Vera Miles e, nella breve parte di Debbie, la grande Natalie Wood (ma anche il figlio di Wayne, Patrick, nella piccola parte di un giovane tenente che infilza per sbaglio Ward Bond con la sua spada, ribattezzata "lo spiedo").
Arrivando infine al controverso tema se il film stesso possa essere definito "razzista", a mio modesto parere non lo è, mi sembra che Ford mantenga una distanza dal personaggio di Ethan, che non è dipinto in una luce così positiva e alla fine resta chiaramente solo e sconfitto (ma le interpretazioni a questo riguardo sono molteplici, ad esempio Mereghetti sostiene che "certe prodezze di Ethan, come quella di cavare gli occhi agli indiani per farsi beffa di una loro credenza, sono viste con indubbia simpatia", mentre personalmente le trovo inerenti ad un personaggio ossessionato da un odio razziale "malato" a cui non mi sembra che il regista partecipi emotivamente). Mi ha creato un qualche disagio il momento in cui Martin Pawley allontana da sè con un forte calcio la donna indiana che lo inseguiva sperando di poter diventare sua moglie, ma non mi sembra, in ogni caso, che questo basti a qualificare il film come "razzista" 

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