Regia di John Ford vedi scheda film
Dispiace sempre vedere gli indiani demonizzati, ma in questo Ford del '56 la divisione manichea tra buoni e cattivi, e tra ordine e libertà (concetti antitetici nonostante qualcuno continui a sostenere il contrario), è molto sfumata. Nel personaggio di John Wayne, che caso strano questa volta piace pure a me, si condensano tutte le spinte differenti e le lacerazioni di un mito, quello americano, fondato sulla conquista e la prevaricazione. Lo stesso Ethan sembra non sapere davvero ciò che vuole, come per esempio non sa cosa fare con la nipote Debbie, oppure il suo amore/odio verso Martin, un mezzosangue. Siamo sul finire della carriera western sia di John Ford che di John Wayne, e per entrambi il film significa la messa in discussione di un immaginario e di un mito a cui forse s'era data troppa importanza fondante, e il lato comico e burlesco del film ne evidenzia la sdrammatizzazione.
Esteticamente è un capolavoro di forme, di silohuette, di colori e di riprese. Quegli interni da cui si ammira la vastità degli esterni sono una delle cose più belle di tutta la storia del cinema. E il finale, dove John Wayne rimane all'estero, indica che il cowboy, il gringo, il westerner vero e puro non scende a compromessi con la civiltà e con l'ordine (sebbene nel cinema americano se ne era fatto promotore), e vi preferisce la libertà allo stato brado. Metafora di una fuga da una realtà costrittiva che non ci permette di essere ciò che vorremmo.
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