Regia di John Ford vedi scheda film
Tra i magnifici scenari della Monument Valley, la sabbia, il vento e l’imponenza della natura assistiamo alla ricerca che due uomini compiono.
Uno di loro, Ethan Edwards, forse avrà il compito più difficile. Quello di ritrovare oltre a Debbie, una bambina rapita dagli indiani, anche la propria anima.
John Ford carica il suo film di toni malinconici e crepuscolari, il mito del West non mostra più le sue nette opposizioni tra bene e male, i suoi ruoli definiti e immutabili. Qui è l’ uomo bianco ad essere oscuro ed enigmatico. Quella di Ethan Edwards è una personalità razzista e maschilista, svuotata da quei valori che avevano contraddistinto gli eroi bianchi fino a questo momento.
Un uomo politicamente scorretto che non si accontenta di vedere un indiano morto, ma che sparandogli negli occhi lo vuole condannare ad errare in eterno.
Ethan Edward si ritrova, dopo essere tornato dalla Guerra di Secessione, con la famiglia del fratello. Una famiglia di cui lui è, però, un elemento esterno. Il film infatti si apre con un movimento di macchina che dall’interno della casa della famiglia si sposta verso l’ esterno, attraverso una porta, dove la luce accecante del sole del deserto si incornicia nel buio della casa.
Di fuori compare la figura a cavallo di Edward.
Questo uomo che arriva dal deserto, di cui non sappiamo la storia e che si presenta subito come elemento di rottura degli equilibri familiari.
Infatti nel corso di poco tempo l’intera famiglia del fratello di Ethan verrà sterminata, tranne le due figlie che si presume siano state rapite.
Ethan insieme al “nipote” (un meticcio da lui salvato quando era ancora in fasce) si mettono alla ricerca delle due ragazze.
Da qui il titolo del film (The searchers – I cercatori), che come ho detto rilancia l’interpretazione di una seconda ricerca, spirituale, da parte di Ethan.
La storia allunga i suoi tempi attraverso un tempo ciclico che mostra le stagioni e che accompagna questi due uomini nella loro dura ricerca.
Nell’ arco di cinque anni saranno molti gli incontri che Ethan farà fino ad arrivare al ritrovamento della piccola Debbie, ormai adolescente.
La ragazza è diventata una comanche e in un primo momento Ethan non la riconoscerà come propria nipote e consanguinea, proprio perchè a suo avviso è stata “sporcata” dagli indiani.
Nello stupendo pre-finale del film, Ethan ritrova una parvenza di umanità, sollevando Debbie in aria come era solito fare quando lei era bambina.
Un gesto di grande dolcezza o forse di resa di fronte a qualcosa che non si può sopprimere.
Il nostro provare sentimenti.
Il nostro non poter essere sempre indifferenti davanti alle esperienze che facciamo.
Lo spettatore, quindi, rimane emozionato davanti alla scena perchè crede che Ethan potrebbe uccidere la propria nipote, avendone avuto il sentore da una scena precedenete in cui Ethan cercava appunto di spararle.
Invece il gesto del cowboy è di una purezza esemplare.
In questo modo John Ford chiude magistralmente la sua storia, ricucendo anche temporalmente lo strappo che aveva infranto l’ immutabilità del tempo mitico.
Passato e presente si riuniscono ed Ethan, ridiventato uomo per un attimo, rientra anche lui nel suo essere una figura mitica.
Lui è infatti colui che è costretto ad errare.
Nell’ ultima scena del film lo vediamo mentre riporta Debbie a casa. Una casa dove Ethan non entrerà mai. Ford ce lo mostra in una scena speculare a quella di apertura. Movimento di macchina questa volta dall’esterno all’interno, John Wayne incorniciato tra il buio dell’interno e la luce dell’esterno e una porta che si chiude e sancisce la fine del film.
Ethan non potrà mai avere una famiglia.
Il suo destino è quello della solitudine e dell’errare.
Come la condanna che aveva inflitto all’anima dell’indiano, la stessa sorte toccherà a lui.
John Ford nega una redenzione al proprio personaggio e lo condanna in un tempo dove non ci sono più valori o atti veramente eroici.
Un tempo nel quale neanche quel breve gesto di umanità sembra sia servito a riscattare l’amarezza di un‘intera vita.
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