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Avengers: Age of Ultron

Regia di Joss Whedon vedi scheda film

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La recensione su Avengers: Age of Ultron

di lussemburgo
8 stelle

Secondo capitolo della avventure cumulative degli eroi cinematografici Marvel, The Avengers – Age of Ultron è firmato per l’ultima volta da Whedon, autore televisivo ancor prima che cinematografico. Ed è proprio nel principio di preminenza della scrittura, tipicamente televisivo, che risiede la maggiore peculiarità del film, anche a confronto col suo predecessore, da cui intimamente deriva e dal quale profondamente si discosta. Se una certa euforia quasi infantile poteva ancora plasmare le prime avventure dei Vendicatori, diventando azione adrenalinica e sfrenato susseguirsi di scontri e battibecchi, la cupezza della prospettiva di un’età di Ultron, con il conseguente genocidio dell’uomo, apre spiragli di angoscia direttamente derivanti (anche per connessione tematica, sviluppata dal film) dalla battaglia di New York e dalla devastazione che concludevano il film precedente. Serialmente, questo Avengers pone fine alla seconda fase della narrazione cinematografica Marvel e getta le basi di ogni futuro sviluppo, attento anche a riprendere le fila di tutti gli altri capitoli sparsi e legati alle singole figure dei Vendicatori, senza dimenticare le serie tv, Agents of Shield in primis, tie-in catodico della serie cinematografica (derivato direttamente dagli eventi della prima pellicola) il cui episodio precedente l’uscita americana (il 1 maggio) serve da introduzione al film stesso che, difatti, bondianamente, inizia in medias res con un’avventura già avviata altrove. La narrazione che si va sviluppando nei film (e nelle serie) Marvel è coerente e adulta per temi e toni, mascherata da serata da Halloween, con costumi e battute, che gioca a confrontarsi con l’archetipo degli albi a fumetti per sviluppare una diversa articolazione dei caratteri e, a volte, per ragione di copyright, ne definisce anche una differente origine (Quicksilver e Scarlet, i fratelli Maximoff, non sono più mutanti figli di Magneto - cfr. X-Men – Giorni di un futuro passato - ma semplici volontari dai poteri sviluppati artificialmente dall’Hydra). Anche la nemesi di turno, il robot Ultron, progetto di intelligenza artificiale che trova un corpo di metallo e giudica logicamente inferiore l’uomo che l’ha creato, si sposta su un piano di continue citazioni che spaziano da Pinocchio al Vangelo, dal figliol prodigo al desiderio di onnipotenza, muovendosi tra Edipo e Shakespeare, tra Kubrick e Blade Runner. In questo si avvale dell’ausilio gigionesco (nella versione originale) di James Spader, le cui movenze e l’eloquio colto sono già al centro di The Blacklist, procedurale d’azione in cui campa un egocentrico e machiavellico supercriminale dal doloroso e misterioso passato. Tra il desiderio di vita di Ultron e di serenità dei supereroi, si fa strada la tangibile sensazione di morte, del lutto incombente e in agguato per qualcuno, o forse per tutti (caso mai il piano del robot riuscisse). Ed è il sintomo di un segnale latente nel film, e che Il soldato d’inverno aveva già esplicitato col clamoroso crollo dello Shield: il mondo Marvel è in evoluzione e niente deve essere dato per scontato, né la morte di un eroe, né la nascita di un altro. Ed e proprio a questo che assistiamo, con la culla in cui ha la sua gestazione la Visione, androide dal corpo sintetico e dall’intelligenza superiore, antitesi di Ultron e replicante umano, superuomo volante dal mantello fluttuante e dalla densità fisica e sentimentale variabile e futuro Vendicatore. Se il primo film serviva proprio a riunire i supereroi, questo prelude al loro distacco, alla definizione allargata di supergruppo poliedrico e cangiante, aperto ad altri apporti e in perenne ridefinizione, come nei fumetti. La chiusura della pellicola riecheggia il finale di Captain America - The Winter Soldier, con il Capitano entrato quasi in clandestinità e avviato alla ricerca di Bucky, il Soldato d’Inverno. Qui sembra iniziare una diaspora degli eroi, ognuno rivolto verso un destino singolare ed individuale, dopo un’avventura che, non lesinando certo effetti speciali e scene pirotecniche, lascia comunque molto spazio all’approfondimento delle singole personalità e un po’ più di margine alle capacità recitative degli interpreti, e che termina, simbolicamente, interrompendo il motto degli Avengers, “Vendicatori: Uniti!”, tralasciando, con un violento stacco di montaggio, l’esortazione finale mostrandone, invece, la disunione. Così come in televisione la costruzione di una moderna narrazione si fa lineare e procede serializzata di episodio in episodio non più autoconclusivo, anche i vari capitoli cinematografici della saga Marvel (e del suo universo narrativo coerente, detto MCU) si articolano secondo una logica di progressione continua, in cui tutto può essere improvvisamente vanificato e il protagonista ucciso. E, come insegnano i serial contemporanei, sono i personaggi e i rispettivi rapporti a costituire la logica interna del racconto, e questa attendibilità diventa il fondamento della credibilità generale dell’impianto, a dispetto dell’ambientazione e dei sussulti improbabili del racconto, come in Lost o nel whedonverse. La stereoscopia poco invadente e aggiunta in postproduzione, la rapidità dei raccordi nelle scene d’azione rendono a volte quasi impalpabili i personaggi e le loro movenze. Ma negli a-parte e nella calma delle sequenze dialogate si sviluppa una diversa tridimensionalità, più psicologica e realistica, che conferisce concretezza e vita ad eroi di cartone in costume aderente.

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