Regia di Mauricio Cuervo vedi scheda film
La autoreclusione di un anziano professione in pensione che rifugge la vita a causa di un trauma devastante da cui non è mai riuscito ad uscire. Nel 2012 di una ipotetica fine presunta imminente, le vite di un padre auto-carcerato, e di un figlio irresponsabile si intersecano trovando un equilibrio reciproco.
Non capita spesso di aver a che fare con un film colombiano, specie in sala, ma i miracoli di una distribuzione francese più che generosa rendono possibili certe occasioni, di fatto imperdibili, a prescindere dal valore intrinseco dell’opera.
Verso la fine del 2012, quando le nefaste profezie Maya suggestionavano semi-seriamente gran parte della popolazione del globo, un settantenne di nome Pablo, trascorreva le sue giornate segregato volontariamente in casa, alle prese con le cure e le medicine che con un certo scrupolo si auto somministrava in base alle indicazioni ricevute dal medico curante.
L’uomo è vedovo da circa un ventennio, ma la moglie è scomparsa non già per eventi naturali, ma a causa di un tragico evento che verrà rivelato all’epilogo.
Annoiato e quasi sempre solo - il figlio passa a trovarlo per rifornirlo di generi alimentari sempre più di rado, preferendo recarsi al bar che frequenta con il suo amico di sempre, sottraendo tempo alle responsabilità di padre di un neonato a cui non pare molto attaccato e fantasticando sulla fine ormai imminente, a sentire i Maya - Pablo cerca il dialogo col mondo attraverso il telefono: si accanisce per ottenere il rimborso dall’abbonamento di una rivista che non lo soddisfa (egli è un ex professore in pensione, e dunque un tipo piuttosto acculturato nonché fervido lettore), e si prodiga in scherzetti telefonici che finiscono per far accrescere ulteriormente la propria frustrazione di uomo auto-recluso.
Un viaggio verso l’esterno, in compagnia di un figlio in piena crisi coniugale, nel luogo dell’avvenimento che lo rese uomo segregato un ventennio orsono, servirà a restituirgli la dignità di uomo allontanandolo da uno stato larvale, quintessenza di una improduttività che sfianca e rende come degli automi senza un significato per sopravvivere.
Un film dai tratti delicati, che sonda nell’intimo di un carattere, anzi di due, senza tuttavia riuscirne a cogliere con efficacia i tratti salienti. Colpa forse di una recitazione un po’ troppo meccanica o apparentemente poco ispirata, ma il film aveva le carte in regola per regalare molte più emozioni di quello che necessariamente offre, anche riconoscendogli il pregio di evitare sempre situazioni lacrimevoli, puntando sul lato ironico e disincantato di una condizione tra l’autoreclusione e la gestione di una fine più ipotetica ed affascinante che reale.
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