Regia di David Fincher vedi scheda film
David Fincher ci regala un altro thriller di meravigliosa fattura. Durante il film il registro narrativo cambia continuamente, dando allo spettatore appigli differenti che lo guidano per mano lungo un percorso più che tortuoso, fino all’ultima (irrisolta) scena. La complessità narrativa di “Gone Girl”, uscito col sottotitolo italiano “L’amore bugiardo”, vale da solo il prezzo del biglietto. Sulla trama non si può riferire molto. Solo che si tratta della storia d’amore tra Nick ed Amy, un rapporto complesso tra due personalità difficili, acuito dal modo d’intrecciare le vicende (che spesso viaggiano su due piani narrativi contemporaneamente). Il film poteva concludersi dopo un’ora, quando buona parte dell’arcano viene svelato: ma sarebbe stato “solo” un thriller psicologico; per la successiva mezz’ora le cose cambiano e si intravvedono i prodromi del giallo (tentativo di delitto perfetto compreso, seppur inscenato da un punto di vista atipico), concludendo col classico genere drammatico, rappresentato dallo scontro psicologico tra i due protagonisti.
I temi trattati da Fincher, come la potenza affabulatoria della TV, l’importanza degli avvocati nella risoluzione dei conflitti, il fragile equilibrio che regge il matrimonio, il potere dell’apparire, sono elementi mixati straordinariamente, con una tensione costante che non cala mai fino alla fine. Anche la lunghezza, oltre due ore e mezza, non risulta eccessiva: ciò che sorprende piuttosto è il fatto che Fincher abbia la pazienza di ricominciare tutto da capo ogni volta.
Un film diabolico, dall’estrema tensione, che prende un po’ da Hitchcock, un po’ dalla letteratura classica americana (seppur ambientata in un background lynchiano di provincia), ed in cui la disperazione dei protagonisti non ne fa figure negative, almeno non quanto i vampiri televisivi e i loro processi sommari o i fan (che la televisione stessa crea), amanti dei selfie (col presunto mostro nella fattispecie) a ogni costo.
Rosamunde Pike, che interpreta Amy, è stata meritatamente insignita dell’Oscar come attrice protagonista, mentre Ben Affleck, con la sua unica espressione per tutta la durata del film, sfigura al confronto e rappresenta forse l’unico difettuccio di un film che con buona probabilità avrà lo stesso incedere verso il mito di precedenti lavori di Fincher come Seven o Fight club.
David Fincher ci regala un altro thriller di meravigliosa fattura. Durante il film il registro narrativo cambia continuamente, dando allo spettatore appigli differenti che lo guidano per mano lungo un percorso più che tortuoso, fino all’ultima (irrisolta) scena. La complessità narrativa di “Gone Girl”, uscito col sottotitolo italiano “L’amore bugiardo”, vale da solo il prezzo del biglietto. Sulla trama non si può riferire molto. Solo che si tratta della storia d’amore tra Nick ed Amy, un rapporto complesso tra due personalità difficili, acuito dal modo d’intrecciare le vicende (che spesso viaggiano su due piani narrativi contemporaneamente). Il film poteva concludersi dopo un’ora, quando buona parte dell’arcano viene svelato: ma sarebbe stato “solo” un thriller psicologico; per la successiva mezz’ora le cose cambiano e si intravvedono i prodromi del giallo (tentativo di delitto perfetto compreso, seppur inscenato da un punto di vista atipico), concludendo col classico genere drammatico, rappresentato dallo scontro psicologico tra i due protagonisti.
I temi trattati da Fincher, come la potenza affabulatoria della TV, l’importanza degli avvocati nella risoluzione dei conflitti, il fragile equilibrio che regge il matrimonio, il potere dell’apparire, sono elementi mixati straordinariamente, con una tensione costante che non cala mai fino alla fine. Anche la lunghezza, oltre due ore e mezza, non risulta eccessiva: ciò che sorprende piuttosto è il fatto che Fincher abbia la pazienza di ricominciare tutto da capo ogni volta.
Un film diabolico, dall’estrema tensione, che prende un po’ da Hitchcock, un po’ dalla letteratura classica americana (seppur ambientata in un background lynchiano di provincia), ed in cui la disperazione dei protagonisti non ne fa figure negative, almeno non quanto i vampiri televisivi e i loro processi sommari o i fan (che la televisione stessa crea), amanti dei selfie (col presunto mostro nella fattispecie) a ogni costo.
Rosamunde Pike, che interpreta Amy, è stata meritatamente insignita dell’Oscar come attrice protagonista, mentre Ben Affleck, con la sua unica espressione per tutta la durata del film, sfigura al confronto e rappresenta forse l’unico difettuccio di un film che con buona probabilità avrà lo stesso incedere verso il mito di precedenti lavori di Fincher come Seven o Fight club.
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