Regia di David Fincher vedi scheda film
Sulla locandina è comparsa la scritta “Vietato ai minori di 14 anni”. Non se ne vedevano molte, ultimamente. Il film è forse considerato impressionante, per una sola (mal concepita) scena di sangue e sesso. O forse diseducativo, visto l’indiscriminato impasto di follia, istinto, amoralità che ne costituisce l’(indigesta) essenza. Certo è che David Fincher costruisce la sua trama impeccabilmente cadenzata senza mai perdere di vista l’obiettivo di fare sensazione con una densa miscela di realismo, psicologia, mistero: una visione allucinata che demonizza di pari passo l’ipocrisia borghese, la cinica invadenza dei media nella vita privata e, in generale, la finzione spettacolarizzata come la diretta espressione dell’anima infernale – vera o presunta - che alberga all’interno dell’umanità intera, compresa quella culturalmente più raffinata. Questo scrupolo narrativo, che per un po’ ci fa trattenere il respiro, mentre contrae inopinatamente i tempi, a lungo andare produce l’effetto di un‘impresa compiuta sotto sforzo, in cui gli eventi si incastrano con innaturale perfezione, e il linguaggio è fastidiosamente sopra le righe: la versione originale ci propone un improbabile concentrato di ricercate espressioni gergali, a condimento di battute sempre fastosamente infiocchettate, sempre piazzate con assoluta precisione.
La crisi del matrimonio tra due giovani scrittori si traduce in un intreccio diabolico, cervellotico ma in fondo prevedibile, il cui modesto fascino non sopravvive al suo precoce svelamento a metà pellicola. Da quel momento in poi il percorso è tutto in discesa, con una tensione che cerca disperatamente di risollevarsi creando l’aspettativa di un incombente capitolo da legal thriller che, invece, non vedrà mai la luce. Nemmeno il colpo di scena finale offre un’adeguata via d’uscita da questa stagnazione del racconto, che quando ormai, senza troppa sorpresa, si è capito l’inganno, insiste nel volerci raccontare tutti gli insignificanti dettagli della sua realizzazione. Nonostante gli evidenti propositi di critica sociale, sembrano un po’ inutili le incursioni en passant nel mondo del consumismo americano, dal cibo dei fast food, alle montagne di scatolame comprate nei supermercati, alle abbuffate di demenziali strumenti tecnologici, fino ai maniacali eccessi del commercio online. Tutto ciò poteva mancare: l’assenza di questo superfluo stereotipato ci avrebbe magari distolto dal sospetto di trovarci di fronte al solito prodotto hollywoodiano, eternamente succube dei cliché di massa, impudentemente dedito al divismo a due voci, ed imperterrito nel volerci somministrare i suoi abusati modelli estetici. La salsa piccante in cui, stavolta, ha tentato di servirceli, ha purtroppo il sapore plastificato e dolciastro di certe pizze made in USA. Desi Collings sa commentare le sinfonie settecentesche, l’impressionismo ottocentesco, e citare Proust in francese. Perdinci, questa sì che è roba forte.
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