Regia di David Fincher vedi scheda film
I protagonisti dei film di Fincher non sono mai facilmente catalogabili in una categoria, sono ambivalenti come le sue pellicole, che spaziano tra i generi e spesso ne abbracciano più d’uno. Così Gone Girl è un film cangiante, giallo e thriller tanto quanto melò e ritratto patologico, procedural poliziesco e psico-dramma familiare, tratteggio della crisi economica e sociale di un’America impaurita e alla ricerca di mostri-capestro a cui addossare ogni peccato nel clangore della trivialità televisiva che accusa e si autoassolve; ma è anche riflessione sull’indifferenza e sul dolore, sulla percezione e sulla colpa, sull’immaginario e la sua costruzione, tra mediocrità e meschinità, calcolo e megalomania.
Zeppi di riferimenti pop a trasmissioni tv e a comportamenti codificati dalla loro espressione audiovisiva, i dialoghi - e i monologhi - de L’amore bugiardo si fanno antologia di un panorama culturale scontato e già visto, rimasticato dalle stesse vite dei protagonisti che, di volta in volta, si incarnano in stereotipi noti e inconsapevoli, tra Sex and the City e Law & Order, attraversando CSI e Six Feet Under, House of Cards e Le verità nascoste, senza rinunciare a Seven e Fight Club, senza scegliere mai un preciso e definitivo referente, sia esso Hitchcock o Truffaut. Dal romanticismo newyorkese alla noia suburbana, dall’amore molesto all’omicidio preordinato, l’indagine poliziesca e la satira televisiva, abbozzo di rom-com e courtroom-drama in nuce, ricostruzione dell’amato come oggetto di desiderio condizionato, tra illusione sociale e l’allucinazione patologica, malignità omicida e ossessione amorosa, il film cambia registro e protagonista rimanendo caustico e diligente, classico e innovativo. La regia si nasconde nella direzione degli attori, dalla perfetta ambivalenza, nella resa plastica delle scene e in una rapidità del montaggio che cela una durata quasi ipertrofica in cui si stipano due differenti film, due diversi protagonisti, due contrastanti sentimenti, mentre tutti gli altri personaggi, pur perfettamente trattati, diventano contorno di un piatto avvelenato nei suoi ingredienti principali. Gli effetti più plateali si nascondono nelle scene volutamente disturbanti, mentre altrove il malessere si diffonde placidamente nella banalità del quotidiano e la inquina inesorabilmente, la avvelena e la vicenda narrata si trasforma in spettacolo di intrattenimento criminale, di spudorato gossip sensazionalista.
Se è consueto per il cinema orientale, coreano o di Hong Kong, il repentino cambiamento di registro e di protagonista, il cinema americano sembra sempre legato alla cardinalità di una sceneggiatura strutturata, coerente nel definire un microcosmo di elementi utili ad ogni successivo sviluppo e alla prevalenza di una figura riconoscibile in cui sia facile identificarsi; Fincher sembra invece voler riunire entrambe le tendenze, concedendosi la precisione narrativa senza le maglie stringenti della univocità, permettendo al film di spaziare e d’arearsi, spostarsi improvvisamente altrove in una narrazione parallela che diventa alternata alla precedente (e ad essa alternativa), mentre la trama, sulla scia lunga di Fight Club, si concede il twist finale ma a metà racconto. L’avvicendamento di separate linee di sviluppo è una classica derivazione seriale, e la mescolanza di diverse tracce temporali è una più recente innovazione di una medesima scrittura a puntate che è diventata, negli anni, l’avanguardia della sperimentazione narrativa. Fincher sembra esserne pienamente cosciente, dopo l’esperienza registica e produttiva di House of Cards (Netfix, dal 2013), e Gone Girl si concede, così, un’ulteriore ibridazione tra cinema e televisione all’interno del già affollato apparato referenziale offerto allo spettatore.
Ed è nell’amalgama delle sue componenti che il film si trasforma da tragedia individuale vissuta collettivamente e da ossessione personale mascherata da ripicca psicotica in duello a distanza più o meno ravvicinata, e il complesso della storia nell’episodio pilota ipotetico di tragedie future, lasciate nel fuori-campo dell’immaginazione. Freddo e sarcastico come Kubrick nel ritratto sociale, sebbene senza il suo filtro estetico straniante, empatico e viscerale come un Bergman frullato da Tony Scott, Fincher propone, ancora una volta, un film-cervello che sia immagine del suo protagonista e riflesso delle distorsioni della sua percezione del mondo. Per accedere a questa visione interiore, il regista la esteriorizza completamente e si fa cinefilo catodico per esprimere una quotidianità semplice e complessa e in cui la ricerca della felicità perde ogni connotato morale per diventare intrattenimento, egoistico titillamento delle proprie personali perversioni, a volte assunte a guida di vita. Vittima e carnefice si confondono e assecondano, si affrontano e accordano stridendo, pur senza unisono se non nella volontà di sopraffazione e di affermazione del proprio personale egocentrismo, risultante in un “mexican standoff” di periferia, senza vincitori e con tutti vinti, mentre il sorriso (elemento ricorrente del film e perfetta incarnazione televisiva) assume ogni valenza e sfumatura plausibile dell’odio o dell’amore, contemporaneamente.
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