Regia di David Fincher vedi scheda film
In cerca di Amy
Quando l’idea(le) di vita perfetta e felice va in frantumi, quando il sopraffino e sexy gioco di complicità con la propria metà del cielo scopre i suoi ingranaggi vetusti e arrugginiti, demolendo quel castello di sogni rosa confetto costruito con assidua perizia e meticolosità dall’età dell’innocenza,
quella lingua che una volta si parlava in due si fa d’un tratto incomprensibile e ostile, quel codice segreto che nessuno poteva penetrare diventa accessibile a tutto il resto intorno, tranne per chi, un tempo, ne custodiva la chiave e adesso, invece, pare averla smarrita.
È la tomba dell’amore. O matrimonio.
O forse, le aspettative che il matrimonio genera.
La vita tutto corrode, come la salsedine i luoghi di mare.
Difficile, diremmo impossibile, non essere toccati e contagiati da questa lenta, impercettibile, inesorabile, sanguinante scarnificazione.
L’ultimo lavoro di David Fincher è una feroce, spietata, perversa battaglia fra sessi, è una “guerra dei roses” che vira al noir piuttosto che al grottesco. È il “presunto innocente” che si batte fuori dall’aula di tribunale, contro un banco d’accusa ben più agguerrito e acerrimo di quanto ci si aspetterebbe: l’opinione pubblica e il gioco al massacro condotto a colpi di scoop dai canali mediatici.
Nell’era della comunicazione globale, dei più variegati mezzi di informazione, dell’apparire che coincide con l’essere, è necessario -vitale- piacere alla gente, creare empatia, ottenere consensi. E coccolarla per farsi coccolare.
Centinaia di migliaia di persone presenti su questa terra possono decretare -come una volta avveniva nelle arene romane- la morte o la salvezza di un essere umano.
Interi popoli sono assuefatti alla perpetua ricerca di falsi idoli (sempre più frequentemente della porta accanto) prima da adorare, e poi, con la medesima sbrigativa facilità, rimpiazzare una volta preparata loro la forca…
Un caso di cronaca come tanti.
Un pantano di segreti e bugie tentacolari.
Vite distrutte, sacrificate sull’altare di esistenze precostituite, fatte di case di bambola, ordinate villette a schiera con le aiuole e gli orticelli curati e rigogliosi, lì nei tranquilli lontani spensierati ‘immuni’ quartieri residenziali.
Gone girl è costantemente immerso nelle fosche e plumbee tinte del thriller fincheriano, dove nulla è come appare, dove convergono e divergono più punti di vista, dove la narrazione percorre il sentiero della soggettività perché i personaggi hanno la loro storia/versione della storia da raccontare, dove magnifiche ossessioni divorano, fameliche, chi le abita, dove la vittima si scopre carnefice, trasformandosi in un furibondo e lucidissimo castigatore di anime perdute, rozze primitive creature, meschini esseri malati su cui calare l’ascia della propria personalissima vendetta.
Dove non c’è redenzione, e il prezzo da pagare sale in maniera esponenziale.
E quando cala il sipario, si spengono le luci e tutti, soddisfatti del rassicurante happy end, tornano a casa, ecco che inizia un secondo spettacolo, quello ben più spietato e soprattutto assolutamente autentico: l’inferno di un deviato menage coniugale che brucia perenne dentro le pesanti e spesse mura domestiche,
mai più romantica capanna ad abbracciare due cuori stupidamente innamorati, ma solo una versione più subdola (e perciò più terribile) di prigione, dove stavolta nessuno tenterà di entrare per venirci a salvare.
Almeno finché morte non ci separi.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta