Regia di Ron Howard vedi scheda film
Il racconto del mozzo Owen Chase, unico superstite della baleniera Essex affondata da un gigantesco capodoglio, allo scrittore Herman Melville, del naufragio della nave partita da Nantucket per cacciare le balene e riportare in patria il prezioso olio, antesignano del petrolio, che serviva come combustibile per le lampade. Il racconto ispirò la realizzazione del romanzo Moby Dick.
Confesso che era un po’ che non assistevo alla grande magia del cinema orchestrata da Ron Howard. La curiosità per Herman Melville e il suo capolavoro Moby Dick che lessi in gioventù, con grande fatica a dire il vero, mi aveva provocato il conflitto di sentimenti contrastanti.
L’uno, la curiosità del poter assistere ad un’avventura epica, affondata alle radici dell’animo umano. La bestia che sorge dal mare, bellissima e crudele come qualsiasi munifico parto della natura, si confronta, annullandola, con la protervia della natura umana mostrandone i limiti, disossandone le certezze e riducendo l’uomo allo stato primigenio delle pulsioni che lo muovono durante sua breve esistenza terrena. L’altro sentimento, opposto, era la constatazione che tutto questo ben di dio sarebbe stato messo in scena da Ron Howard, con tutto il suo carico di retorica, exploitation visivo, sovraccumulo estetico, appiattimento narrativo sulle forme più basilari del racconto.
Beh. E’ proprio così. La bellezza del cinema di Ron Howard sta nel non cercare neppure di dissimulare la servile genuflessione all’aspettativa del pubblico. Fosse anche un’aspettativa negativa. Non gli si può negare coerenza, dopo tutto.
Il film è un adattamento dal libro di Nathaniel Philbrick In the Heart of the Sea: The Tragedy of the Whaleship Essex , episodio di cronaca marinaresca del 1821 che ispirò Herman Melville per la creazione del suo capolavoro, Moby Dick pubblicato nel 1851 e dedicato all’amico scrittore Nathaniel Hawthorne.
Nel libro si narra l’affondamento della baleniera Essex ad opera di un gigantesco capodoglio albino, ad oltre 3000 miglia dalla costa del Cile.
Il cuore di tenebra dei marinai non può essere rischiarato dall’olio di balena. L’oblio verso il quale i rudi uomini di Nantucket, New England si cacciano, è la pulsione più profonda che sgorga dalle tenebre della ragione. Un tema universale che trova nel candore assassino del grande mammifero marino un feticcio divenuto anch’esso universale.
Tema che nelle mani di Howard scivola via sull’olio di balena, si intravede come un capodoglio all’orizzonte. Sbuffa, soffia, ma non emerge mai.
Quello che interessa all’ex rosso di Happy Days è mostrare le immagini svuotandole di qualsiasi simbologia preferendo le pose alla recitazione, l’esagitazione all’introspezione, l’iperrealismo digitale alla ricostruzione. Ne viene fuori un film posticcio che anela ai grandi classici d’avventura anni '40-'50, quella con gli eroi epici, i capelli scarmigliati dal vento, i dialoghi enfatici e i fondali dipinti che riuscivano a trasmettere una magia senza tempo, simbologia di segni che senza la presunzione di sembrare realistici accarezzavano il reale dei sentimenti. Si sentivano veri.
Non succede in Heart of the sea . Ron Howard è un grande accumulatore di stimoli visivi che non vanno oltre il senso di ciò che mostrano. Superficie, quando il mostro marino emerge dalle profondità. Semplicità, quando invece le motivazioni che spingono gli uomini ad affrontare l’ignoto sono molto complesse.
Soprattutto delude la grande facilità con la quale gli snodi narrativi si susseguono senza sospensioni, ritmati e compulsivi, scanditi dalla necessità di dire il più possibile senza lasciare nulla al caso, all’interpretazione del pubblico. Il film scorre adeguandosi in maniera mimetica alle esigenze del pubblico, prevedibile quasi in maniera cronometrica si riesce a prevedere sempre cosa succederà e a chi. Le regole di un cinema basico che non deve produrre alcun tipo di perturbazione in chi assiste, sono qui scandite come da manuale del grande cinema mainstream.
Se la prima parte del film è tremenda, la seconda, dopo l’affondamento della Essex e il naufragio, si risolleva il un po’ . Ma poco poco. Howard cerca l’Uomo nei suoi personaggi, restando però sempre e comunque a distanza di sicurezza da un reale coinvolgimento emotivo preferendo in ogni caso l’esasperazione espressiva all’empatia. La tragedia si stempera nella convenzione, ciò che succede è più importante delle conseguenze dei fatti. Le tremende privazioni dei marinai alla deriva che arriveranno all’innominabile atto d’antropofagia, sono trattate con la superficialità cottimista del cronista che deve assommare fatti, abbellire di effetti e servire al pubblico senza elaborazione alcuna. La valenza metafisica del Leviatano, quale è simbolo il capodoglio vendicativo, è ridotta a semplice intrattenimento; lo scontro uomo-natura viene risolta a poderose secchiate d’acqua; mettiamoci lo spreco d’attori con un Brendan Gleeson narratore, Cillian Murphy caratterista in ombra e un corpulento e ordinatamente spettinato Chris Hemsworth e una sceneggiatura assolutamente prevedibile che si spappola in un finale buonista, sbrigativo subdolamente ecologista (quando all’epoca delle balene non gliene fregava una cippa a nessuno).
Un po’ Lo squalo (evidente il richiamo al classico di Spielberg), un po’ King Kong ( a detta del regista ma personalmente non ne vedo il nesso), Heart of the sea è un chiassoso intrattenimento imbellettato da classico d’avventura e prodigo di effetti speciali per mascherare un’opera incapace di farsi ricordare. Non è presente neppure una scena veramente memorabile, e tutto si disperde nell’oblio del già visto dopo pochi minuti la visione.
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