Regia di Kenneth Branagh vedi scheda film
Cenerentola si inserisce nell’ambito di un’ormai consolidata operazione disneyana che agisce sull’immaginario delle nuove generazioni di spettatori: recuperare un classico della tradizione, buono per tutte le stagioni, e riproporlo con attori in carne ed ossa (effetti speciali permettendo) senza rinunciare ad atmosfere e particolari che lo associno all’originale animato. Maleficent, in questo senso, ha funzionato molto proprio per la sua complementarità ideale rispetto al modello d’origine e in fin dei conti s’e rivelato un discutibilissimo approccio al fiabesco per una lettura oserei dire eccessivamente femministica e divistica: giustificare un cattivo che, nell’universo del meraviglioso, non deve e non può essere giustificato in virtù delle categorie del manicheismo, ricorrendo ad una opinabile costruzione del personaggio.
Se Malefica veniva umanizzata fino al ribaltamento dei ruoli, fortunatamente la Matrigna resta qui una cattiva senza appello a cui, certo, è offerta la possibilità di una spiegazione (la gelosia per motivi anagrafici ed estetici) ma comprensibile e coerente col personaggio e con la sua “dimensione storiografica”. Inutile a dirsi che l’interesse maggiore del pubblico, eccettuate le bambine e le ragazze cresciute, risiede nel disegno del cattivo: e Cate Blanchett (si) diverte assai nei panni di questa quarantenne ambiziosa che strizza l’occhio a Joan Crawford in un contesto che, in qualche modo, richiama all’idea di un cinema dell’asse anglosassone tra gli anni quaranta e cinquanta fondato sul buongusto della messinscena.
Kenneth Branagh, la cui etichetta di autore shakespeariano è ormai quasi una limitata ovvietà, guarda a quel cinema antico contemporaneo all’adattamento disneyano e rifiuta decisamente la moda del gotico applicata alla qualunque: la sua Cenerentola, se vogliamo, è un film di restaurazione rispetto ai limiti evidenti dell’esercizio del dark in Maleficent (che è il film che dobbiamo prendere come paragone per l’analogia dell’operazione), che ritrova con cinismo disneyano la luce anche nella tragedia (un qualche merito va anche alle scenografie di Dante Ferretti e al reparto costumi diretto da Sandy Powell, nonché alla nostalgica fotografia di Haris Zambarloukos), il bozzetto dei caratteristi per supportare l’inevitabile insipienza dei protagonisti (malgrado l’approfondimento, per dire, dello storicamente inerte Principe), la dimensione magica del cartoon (i topini, le zucche, la Fata svanita).
Dove non funziona del tutto è nella narrazione esterna della Fata madrina, un espediente che lo stesso Disney relegava al cappello introduttivo nella maggior parte delle sue creazioni: la voce che spiega, commenta, descrive quel che accade è naturalmente in direzione di un maggiore coinvolgimento delle spettatrici più piccole (una sorta di ripresa della lettura serale delle favole) e tuttavia appesantisce una storia non bisognosa di parafrasi. È un sontuoso ritorno al lusso dell’eleganza del classico, un forse superfluo regalo del bel-tempo-che-fu nel cinema del meraviglioso e un’educazione sentimentale ai nuovi spettatori avvezzi all’apparente complessità dei cartoon contemporanei: Cenerentola è un film di prevedibile piacere, simpaticamente gentile e finanche lezioso.
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