Regia di Franco Maresco vedi scheda film
A quattro anni di distanza da Io sono Tony Scott, ovvero come l’Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz e a dispetto di quanti spergiura(va)no che Franco Maresco non lo avrebbe mai portato a conclusione, giunge nei cinema italiani l’attesissimo Belluscone, una storia siciliana. Si badi bene: Belluscone, non Berlusconi. Cosa che fa tutta la differenza immaginabile. Tanto per intenderci e sgombrare il campo da eventuali equivoci: non un instant movie pseudo Cinico Tv in clamoroso ritardo quando ormai tutti son convinti d’aver voltato pagina. Piuttosto un’immersione profonda, dolente, nelle viscere di Palermo e della Sicilia (e, per estensione, del paese). Un noir in prima persona, come una specie di Due ore ancora (se ci è concessa la licenza cinefila), nel quale il regista, come un Virgilio della fine, ci guida fra le pieghe di una realtà multiforme, indecifrabile, intrecciata a risposte sibilline, sguardi obliqui e silenzi sgomenti.
Maresco ci piomba nel buio della storia, proprio lì dove i cantori dell’esistente affermano che non esiste altro che il presente assoluto. E se in Tony Scott il musicista era l’ombra dietro la quale s’intuiva la presenza del regista, in Belluscone (causa assenza del corpo del reato, per così dire...), l’autore si mette in scena come corpo che ostinatamente continua a filmare, a interrogare la storia e il mondo e, per estensione, se stesso. Ed è in questa lotta impari che il gesto filmico di Maresco emerge preciso e potente. Il cineasta scomparso, braccato dall’amico Tatti Sanguineti, si offre come sonda e sguardo mettendo in scena la vulnerabilità del corpo che filma come segno del filmare stesso. Rinunciando ai tratti più riconoscibili del suo fare cinema, Maresco trova una dimensione para-rosselliniana, aperta, che si rivela tanto più interessante quanto più il confronto con i materiali d’archivio e i suoi protagonisti è serrato. Nell’incrinatura che da Berlusconi conduce a Belluscone affiora un altro mondo, di fantasmi e di morti, come una terra di mezzo ripiegata su stessa. Puntando il suo sguardo sui gangli di un racconto che si rivela attraverso interruzioni e discontinuità, Maresco mette in scena una mesta fantasmagoria della fine che in virtù di una fiducia matta e disperatissima nel cinema conferma il proprio diritto di cittadinanza nel mondo e nella storia.
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