Regia di Mario Martone vedi scheda film
È raro che si riesca a fare un film poetico su un poeta, ma Martone in questo caso ci è riuscito. E non è che non si sia mai tentato: è che spesso non si è riusciti ad evitare il rischio di cadere nel poeticismo o quello di limitarsi all'arido biografismo. La contaminazione tra opera e biografia di Giacomo Leopardi da Recanati, affinata da Martone con anni di rappresentazioni teatrali, è particolarmente riuscita, anche perché sa svincolarsi dagli stereotipi leopardiani che spesso vengon propinati - o non adeguatamente combattuti - sui banchi scolastici (è solo accennata, per esempio, la figura di Silvia - Teresa Fattorini, la cui triste sorte si imprime nell'animo del poeta), per aderire ad una lettura pienamente filosofica del pensiero e degli scritti di questo grande intellettuale. Questo significa - come la moderna critica filologica sta facendo - abbandonare finalmente l'interpretazione dell'opera del Leopardi filtrata attraverso la sua malattia e ridurne il senso ad un pessimismo che ai contemporanei sembrò antistorico (lo sprezzante giudizio del Tommaseo è che nel prossimo secolo di Leopardi non si sarebbe ricordata neppure la gobba).
Uno dei maggiori meriti di Martone - aiutato in questo intento dalla straordinaria prova di Elio Germano - è quello di essere stato in grado di "interiorizzare" nel proprio film la poesia e la filosofia del Leopardi, come si vede nella magistrale sequenza dell'Infinito. Per di più, il regista napoletano ha saputo enucleare la figura di questo grande poeta e filosofo (la cui importanza, da quest'ultimo punto di vista, è ancora tutta da valorizzare) come appartata rispetto al secolo delle magnifiche sorti e progressive, rispetto al quale il poeta esercita un'insospettabile dose di caustica ironia. È illuminate, a questo proposito, tutta la seconda parte del film, ambientata a Firenze, contrappuntata dalla passione infelice ed inespressa per Fanny Targioni Tozzetti. È messo abbastanza in ridicolo il liberalismo dei circoli letterari dell'epoca, chiuso in sé stesso e in cerchie importanti per la storia letteraria italiana, ma incapace di avvicinarsi alle aperture mentali del Leopardi, tanto che in un concorso letterario indetto dal gabinetto presieduto da Gian Pietro Vieusseux gli viene preferito Carlo Botta, noto sostenitore del riformismo illuminato dei Lorena di Toscana. È quella leopardiana, nonché quella del film di Martone, l'Italia della Restaurazione, nella quale i sedicenti liberali sono tiepidi termidoriani, che sembrano allievi del Dottor Pangloss del Candido di Voltaire.
Gli ultimi anni, quelli di Napoli, sono simboleggiati dall'ultima grande opera del poeta, La ginestra, il fiore che lotta contro la Natura per guadagnarsi un posto in terreni desertici e pietrosi. Purtroppo, quest'ultima parte è anche terreno dell'unico vero infortunio narrativo di Martone, quell'incursione di Leopardi nella suburra e di una infelice, probabilmente inconsapevole, citazione della Moglie del soldato.
Il Giacomo Leopardi di Elio Germano è un'interpretazione forse anche personale, magari fin troppo caricata nel finale (personalmente mi immaginavo il poeta un po' diverso negli ultimi anni), però bisogna ammettere che almeno a tratti raggiunge il sublime.
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